Haim Tomer, ex Mossad: “I leader di molti paesi arabi vogliono che Israele elimini Hamas”

Haim Tomer è stato per nove anni un agente del Mossad, i servizi segreti israeliani che operano all’estero. Dal 2007 al 2011 è stato direttore della sezione intelligence dell’ “Istituto” (questo il significato della parola Mossad in ebraico). Dal 2011 al 2014 è stato a capo delle missioni all’estero. 

Haim Tomer, ex agente del Mossad

Mr Tomer, dopo la fine della tregua tra Israele e Hamas c’è la possibilità di arrivare a un nuovo cessate il fuoco?

Non credo. Penso che il governo israeliano non sia più interessato ad un accordo con Hamas. Ora si va verso violenti combattimenti nel sud di Gaza dove si trova la leadership del movimento islamista. Il piano è colpire duramente i capi o costringerli a lasciare la Striscia, una situazione simile a quella del 1982 a Beirut quando Arafat andò via dal Libano.

In questa fase Israele potrebbe essere pronto a sacrificare gli oltre 130 ostaggi che sono ancora nella Striscia?

Si potrebbe pensare che combattere mentre gli ostaggi sono ancora nelle mani di Hamas dentro Gaza aumenti il rischio di non vederli più tornare a casa vivi. Io credo invece che se i combattimenti continuano, per altre due o tre settimane, Hamas sarà messo alle strette e sarà più propenso a rilasciare tutti gli ostaggi. E non penso che gli ostaggi saranno uccisi perché rappresentano l’unica e ultima risorsa nelle mani dei terroristi.

C’è il rischio che la guerra in corso, con le morti di tanti civili, metta a repentaglio le relazioni che Israele ha costruito con i paesi arabi? 

Non sono più nel Mossad da otto, nove anni. Ma ho molti amici nel mondo arabo. E posso dirvi che tutti i miei contatti nei paesi del Golfo e in Giordania, mi dicono: “Finiteli, finitili”. Ai loro occhi Hamas è come l’Isis, come Al-Qaida. Hamas non solo minaccia Israele, ma minaccia anche la Giordania. E minaccia potenzialmente i Sauditi perchè è alleato degli Houthi. E tutti sanno che Hamas è finanziato e addestrato dall’Iran. Certo ci sono manifestazioni anti Israele nelle strade del Medio Oriente ma non credo che ci sia alcun rischio di mettere seriamente a repentaglio le relazioni che lo Stato Ebraico ha stretto negli ultimi anni con i partner arabi.   

Il New York Times ha parlato di “Jericho Wall”, un documento di 40 pagine, ignorato dai servizi di intelligence israeliani in cui veniva descritto nei dettagli un attacco di Hamas su larga scala come quello che è stato lanciato il 7 Ottobre scorso. E’ solo l’ultimo dei report che mostrano come molte informazioni siano state sottovalutate dalle autorità. Come è stato possibile?

Credo che i motivi siano due. Il primo è il fatto che la leadership dello Shin Bet (i servizi segreti interni) e dell’esercito, che sono responsabili di quello che succede a Gaza, hanno stabilito una strategia secondo la quale Hamas non avrebbe mai lanciato un attacco su larga scala contro Israele, al massimo un lancio di razzi contro le città del sud o l’attacco a una singola postazione militare, non di più. E’ stato un errore. Se pensi in questo modo non sei molto disposto ad ascoltare le segnalazioni di allarme che arrivano dai tuoi subordinati. 

Il secondo punto riguarda il primo ministro. Il premier ha ricevuto molte indicazioni dall’intelligence secondo cui la spaccatura della società in Israele – legata alla riforma giudiziaria promossa da Netanyahu – avrebbe portato Hamas e Hezbollah a tentare di agire contro lo Stato Ebraico. Una lettera è stata inviata personalmente al premier dal capo dell’unità di intelligence dell’esercito. Se sei il premier di un paese che ogni due, tre anni combatte con Hamas, una lettera del genere non puoi ignorarla. Se sei il premier mi aspetto che ti chieda: “due soli battaglioni sono sufficienti ad operare lungo tutto il confine con Gaza e Egitto?”. Ricordo che quando il Ministro della Difesa Gallant ha segnalato nei mesi scorsi un rischio serio e imminente per la sicurezza di Israele la risposta è stata il suo licenziamento.

 

Haim Tomer è stato a capo della sezione intelligence del Mossad dal 2007 al 2012 e poi a capo della sezione operazioni estere fino al 2014.

Israele andrà avanti fino a quando raggiungerà i suoi obiettivi (la sconfitta di Hamas e la liberazione degli ostaggi) o si fermerà prima?

Dipende da diversi fattori. C’è il fattore meteo. Ci stiamo avvicinando all’inverno e manovrare truppe dentro Gaza nella stagione fredda non è semplice. Anche la visibilità dell’aviazione è minore rispetto all’estate. C’è poi il fattore americano. A inizio gennaio partirà la vera campagna elettorale di Biden. E non penso che il presidente degli Stati Uniti voglia che questa guerra continui a lungo: parte del Partito Democratico è contraria ai duri combattimenti, anche se contro Hamas. Poi c’è Hezbollah. Ci sono scontri quotidiani al confine tra Israele e Libano ma al momento si tratta di una guerra di attrito. Hezbollah non sta usando tutte le sue forze, ma tiene impegnate al nord le nostre truppe che così non possono schierarsi a supporto di quelle a sud. Nel 2006 tre soldati israeliani sono stati sequestrati e hanno dato il via a una guerra durata di 33 giorni. Quello fu un errore, ha ammesso Nasrallah, il leader del Partito di Dio, vista la violenta reazione di Israele. E credo che Nasrallah sia sul punto di commettere un altro errore. Infine c’è la comunità internazionale: sta criticando Israele, ma non ha ancora adottato misure concrete. Cosa che presto potrebbe cambiare.

Quale sarà l’impatto sulla guerra a Gaza se venissero uccisi i suoi leader Yahya Sinwar e Mohammed Deif?

Significherebbe la distruzione della leadership di Hamas. Questo spingerebbe i restanti membri del gruppo a chiedere una sorta di accordo in cui si dichiarano pronti a smilitarizzare l’organizzazione, cosa che non credo avverrà mai sotto la guida di Sinwar e Deif. Ma forse, dopo l’uccisione di Mohammed Deif, Sinwar e altri leader, nei ranghi inferiori capiranno che devono accettare un nuovo tipo di accordo che prevede il disarmo delle loro capacità di offesa: niente più razzi e niente più missili.

Il premier Netanyahu ha detto che saranno colpiti i leader di Hamas ovunque nel mondo: significa che prima o poi saranno uccisi anche i capi che vivono all’estero come Khaled Meshal e Ismail Haniye?

Sì, credo che questo avverrà. Ognuno di loro sopra la sua testa ha una condanna a morte per aver ucciso 1200 israeliani. Quando avremo la possibilità di colpirli lo faremo. Non sarà facile perchè sono consapevoli che Israele li sta cercando e si stanno preparando. Ma credo che saremo in grado di trovarli tutti. Prima o poi saremo in grado di mettere le nostre mani su di loro, perché sono degli assassini.

C’è il rischio che i palestinesi vengano spinti in Egitto?

La possibilità che ciò avvenga è molto bassa. Sarebbe possibile solo nel quadro di una vasta iniziativa internazionale, europea, statunitense e panaraba che permetterebbe alle persone di lasciare Gaza per vivere in un campo profughi temporaneo in una zona chiusa, nella parte egiziana vicino al confine con Gaza. Non ci sono molte possibilità anche perché gli egiziani conoscono i palestinesi e per molti, molti anni hanno rifiutato di permettere a un gran numero di loro di accamparsi in Egitto.

Yuval Noah Harari e il mondo dopo il Coronavirus

Guai a chiamarlo profeta. (“Non credo nei veggenti, né tantomeno nei profeti: nessuno è in grado di prevedere il futuro”). Eppure Yuval Noah Harari, professore di storia alla Hebrew University di Gerusalemme, è considerato una mente così brillante da essere in grado di analizzare (e forse anticipare) le sfide delle società del futuro.

Lo storico e scrittore israeliano Yuval Noah Harari a Seoul nel 2016 (EPA/YONHAP SOUTH KOREA OUT)

“Non ho mai fatto così tante interviste come in questo periodo”, ha confessato l’autore di Sapiens, Homo deus e 21 lezioni per il XXI secolo, best seller da 25 milioni di copie che trattano l’evoluzione della nostra specie e il possibile futuro dell’umanità. Ma in poche settimane il Coronavirus ha cambiato la vita di miliardi di persone e Harari è sembrato un punto di riferimento per capire come le selte di oggi nella lotta al virus potrebbero influenzare la nostra vita di domani.

“In momenti come questo si dice che la storia sta accelerando”, ci dice via Zoom dal salotto di casa sua, in un moshav a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv. “Questo significa che oggi le persone sono disposte a fare molto velocemente cose che in tempi normali non avrebbero mai fatto o che avrebbero richiesto anni di consultazioni e discussioni. Nella mia Università abbiamo discusso per anni la possibilità di tenere alcuni corsi esclusivamente online e non lo abbiamo mai fatto: con questa crisi, in una settimana, abbiamo spostato tutti i corsi in Rete e sono sicuro che molti di questi rimarranno online anche al termine della crisi. Lo stesso vale per il mercato del lavoro: si è parlato a lungo di house working, ma solo questa crisi ha costretto moltissime società a metterlo in pratica”.

GUARDA L’INTERVISTA VIDEO A YUVAL NOAH HARARI

Intelligenza artificiale, machine learning e robot sono temi centrali nei libri di Harari che ora tornano più cha mai al centro del dibattito mondiale. “La crisi sta accelerando il processo di automazione”, continua lo storico. “Nelle case di riposo e negli ospedali non c’è sufficiente forza lavoro e c’è il rischio che il personale si infetti. Già oggi robot e computer vengono impiegati in corsia e quando la crisi sarà finita è molto probabile che quelle macchine non verranno spente, ma sostituiranno il personale in carne e ossa”.

Nella battaglia globale per fermare il Covid-19 si inizia a parlare di applicazioni per monitorare gli spostamenti dei contagiati e di veri e propri strumenti di tracciamento. Un tema noto in Israele (paese dove Harari vive) che su ordine della Knesset (il parlamento israeliano) ha autorizzato lo Shin Bet, i servizi segreti interni, a tracciare i cellulari delle persone contagiate usando gli stessi software impiegati nella lotta al terrorismo.

Yuval Noah Harari durante l’intervista realizzata via Zoom

“Non sono contro l’uso delle nuove tecnologie di sorveglianza in questa crisi, ne abbiamo bisogno, ma si deve agire con attenzione e responsabilità”, ammonisce Harari. “Quando si mette in piedi un sistema di sorveglianza di massa è necessario sapere che una volta introdotto è molto difficile da smantellare. Ci saranno sempre argomenti sul perché dovremmo continuare a mantenere attivi quei controlli anche quando il numero di contagiati da covid sarà zero. Ci sarà sempre qualcuno che vorrà mantenere in vita quel sistema in vista di una seconda ondata, di una terza o di una nuova pandemia di influenza, o per l’arrivo dell’Ebola. La storia ci insegna che, una volta introdotte, certe misure di emergenza non vengono mai abolite: lo abbiamo visto negli Stati Uniti dopo l’11 settembre con il Patriot Act“.

In queste settimane il futuro sembra più nero che mai, eppure per Harari questa crisi rappresenta un’opportunità. “La pandemia da Covid-19 può darci una lezione: ascoltare con più attenzione quello che ci dicono gli scienziati. Questa crisi sanitaria non era un evento impossibile da prevedere, la possibilità di una pandemia era sul tavolo e se ne è parlato e scritto in molte ricerche. Negli ultimi anni ci sono state tante teorie cospirazioniste, fake news e un atteggiamento anti scientifico che ha invitato la gente a non ascoltare gli scienziati. In queste settimane ‘scientifico’ è tornato ad essere sinonimo di ‘affidabile’. In Israele hanno chiuso le sinagoghe, in Iran hanno chiuso le moschee, il Papa ha detto alle persone di stare lontani dalle chiese in seguito alle raccomandazioni degli scienziati. Spero che continueremo ad ascoltare i consigli della scienza anche al termine di questa crisi, quando si parlerà di cambiamento climatico: allora dovremo ascoltare gli scienziati con la stessa attenzione, perché potenzialmente il cambiamento climatico sarà molto più devastante del Covid-19″.

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Storia e segreti del Muro del Pianto

In ebraico viene chiamato Kotel, in inglese è Western Wall, muro occidentale, in italiano è semplicemente Muro del Pianto. Parole diverse per indicare lo stesso luogo, il più sacro per gli ebrei di tutto il mondo. 

Il Muro del Pianto e la Cupola della Roccia, Gerusalemme (foto Elia Milani)

Ogni anno centinaia di migliaia di turisti e fedeli in visita a Gerusalemme vengono fino a qui. La maggior parte di loro si ferma nella Western Wall Plaza, la piazza di fronte al Muro.

La storia e le guerre hanno modificato la geografia di questo luogo. Del muro occidentale costruito da Re Erode, lungo 488 metri, è oggi visibile dall’esterno solo una parte lunga 57 metri: per vedere la parte nascosta bisogna addentrarsi nei tunnel che oggi si trovano sotto il quartiere musulmano e che sono stati costruiti in epoche lontane.

Uno dei tunnel del Muro del Pianto che si trova sotto il quartiere musulmano della Città Vecchia di Gerusalemme (foto Elia Milani)

Nel nostro viaggio, andato in onda nella rubrica di Tgcom24 “A Gerusaelmme liberata”, non solo abbiamo percorso gli stretti tunnel sotterranei ma abbiamo anche incontrato gli ebrei ultraortodossi che gestiscono l’area di preghiera e le “Women of the Wall”, le donne del Muro, che da anni lottano per avere gli stessi diritti degli uomini nella zona sacra.

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Viaggio nei quattro quartieri della Città Vecchia di Gerusalemme

Un chilometro quadrato denso di storia. Uno spazio circondato da mura costruite nel XVI secolo dal Sultano Ottomano Solimano il Magnifico che ancora oggi racchiudono i luoghi più sacri per cristiani, musulmani ed ebrei. E’ la città vecchia di Gerusalemme, il cuore di tutta la Terra Santa.

Vista sulla città vecchia di Gerusalemme dalla Torre di Davide (foto Elia Milani)

Attraversata da strette vie in cui è facile perdersi, la città vecchia è un mondo diviso in quattro, tanti quanti sono i quartieri che la compognono: il quartiere cristiano ruota attorno al Santo Sepolcro; quello musulmano si trova a pochi metri dalla Cupola della Roccia; quello ebraico è a pochi passi dal Muro del Pianto mentre il quartiere armeno è costruito attorno alla Cattedrale di San Giacomo.

La mappa della città vecchi adi Gerusalemme (foto Elia Milani)

Fra Jad, frate francescano della Custodia di Terra Santa, mi ha accompagnato per i vicoli del quartiere cristiano dove è nato e cresciuto. Khaled e Abu Samir mi hanno mostrato l’arte della produzione di dolci e dei prodotti di madre perla venduti nel quartiere musulmano, il più grande di tutta la città. Shoshi, ebrea americana, mi ha portato nei vicoli nascosti del quartiere ebraico, mentre George è stato il “Cicerone” nei poco conosciuti cortili del quartiere armeno, chiusi ai turisti. Sono loro i protagonisti del reportage che ho preparato per “A Gerusalemme Liberata” la rubrica di Tgcom24.

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La mossa di Trump e il rischio di un conflitto tra Israele e Iran

“Una situazione complessa”. Una frase diplomatica usata dal presidente russo Vladimir Putin per dire che in Medio Oriente si rischia una guerra regionale con esiti impossibili da prevedere. Il leader del Cremlino ha ricevuto oggi a Mosca il premier israeliano Netanyahu durante il 73esimo anniversario della Giornata della Vittoria che celebra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la sconfitta del nazismo.

L’incontro tra Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu a Mosca

Dopo la parata nella Piazza Rossa Putin ha parlato con il premier israeliano di Siria e Iran, i due fronti caldi che rischiano di far ripiombare il Medio Oriente nel caos. Perché dopo la decisione di Trump di uscire dall’accordo sul nucleare firmato con la Repubblica Islamica nel 2015 la regione ribolle e i conflitti tra nemici storici si acuiscono. Continua a leggere

Al confine tra Israele e Libano: tra bunker antimissile, cecchini e un nuovo muro di protezione

Betzalel ha 65 anni, una lunga barba grigia e occhiali da sole da cui non si separa mai. “Vedi quella casa laggiù”, mi dice indicando la cima di una collinetta distante 300 metri. “L’hanno appena costruita: dentro ci sono i cecchini”.
Betzalel vive a Misgav Am, un piccolo kibbutz nel nord di Israele a pochi metri dal confine con il Libano: 350 residenti e oltre 30 bunker antimissile.

Betzalel Lev-Tov, residente a MIsgav Am, un kibbutz sul confine tra Israele e Libano (Elia Milani)

“Dentro un bunker puoi vivere tutta la vita”, dice sorridendo mentre scendiamo le scale dirette al rifugio. “Qui c’è tutto: la doccia, un bagno, cibo, la televisione. Ora ci troviamo in un bunker pensato per i più piccoli”. Ci mostra i giocattoli e le palline colorate che riempiono la stanza: oggetti indispensabili per intrattenere i bambini del vicino asilo che in caso di attacco sono stati istruiti su come mettersi al riparo.

   — IL VIDEO DEL VIAGGIO AL CONFINE TRA ISRAELE E LIBANO —

Israele da una parte, il Libano dall’altra. Due paesi nemici che si fronteggiano lungo il confine dove è ancora vivo il ricordo delle guerre del 1982 e del 2006. Il sud del Paese dei Cedri è controllato da Hezbollah: il “partito di Dio” fa parte del governo di Beirut ma più di tutti gli altri gruppi politici libanesi minaccia Israele attraverso i velenosi proclami del suo leader Hassan Nasrallah.

Oltre la rete, le colline del Libano (Elia Milani)

“In tutta quest’area ci sono 280 villaggi controllati da Hezbollah e dal regime iraniano”, racconta Betzalel mentre mostra una vasta area oltre la rete di recinzione. “Hanno scavato bunker da cui possono lanciare missili con un raggio di 350 km. Paradossalmente è più sicuro stare qui piuttosto che a Tel Aviv o Haifa: se vogliono colpirci non sprecano certo un missile da una tonnellata e mezza… contro di noi possono usare semplici mortai, lancia razzi o i cecchini”.

Dal racconto di Betzalel non traspare nessuna preoccupazione. “Mi chiedi se ho paura? Ho paura della mia seconda moglie non di Hezbollah”, ci dice sorridendo. Perché a tutto questo lui è abituato. Da oltre 40 anni vive sulla propria pelle la tensione tra i due paesi. E ci tiene a ripetere che “la situazione da 12 anni non è mai stata così tranquilla”.

Un soldato dell’UNIFIL segue la costruzione della nuova parte del muro voluto da Israele iniziata lo scorso febbraio (Reuters)

Dopo la guerra del 2006 molte cose sono cambiate. Sul confine sono tornati i caschi blu della missione UNIFIL, la forza di interposizione Onu, che opera nell’area con 10.460 soldati da 41 paesi, 1100 dei quali sono italiani.

“La retorica che si legge nei giornali non corrisponde alla verità, qui la situazione è tranquilla”, ci dice Andrea Tenenti, portavoce dell’UNIFIL. “In tutti i nostri pattugliamenti, più di 450 giorno e notte, a piedi, con veicoli o con elicotteri non abbiamo visto una situazione tale da farci sospettare che ci siano armi che entrano nel sud del paese”.

Il riferimento è alle accuse lanciate dal governo di Gerusalemme nelle settimane scorse. Secondo i militari israeliani Hezbollah – con l’aiuto dell’Iran – starebbe trasformando il sud del Libano in una fabbrica di armi pronta a colpire Israele.

Una bandiera di Hezbollah sventola vicino al confine con Israele (AFP)

“Oggi Hezbollah può mettere in atto cyber-attacchi o colpire con i droni: possiede una tecnologia che non aveva 12 anni fa”. A parlare è Kobi Marom, ex comandante dell’esercito israeliano ora esperto di sicurezza. “I miliziani sono arretrati di qualche chilometro dopo la guerra del 2006 e hanno costruito bunker, tunnel e siti per i missili sotto le case di civili o anche sotto scuole e ospedali: ma noi sappiamo esattamente dove si trovano tutti questi nascondigli”. Come a dire che in caso di conflitto i jet di Gerusalemme sarebbero in grado di colpire chirurgicamente.

Il muro di protezione lungo 1.2 km è stato costruito da Israele nel 2012 vicino al confine: da febbraio è in fase di ampliamento. Subito dietro la barriera è possibile vedere una moschea libanese (Elia Milani).

Intanto per ridurre il rischio infiltrazioni nemiche il governo di Israele ha deciso di ampliare il muro di protezione costruito nel 2012 che corre per oltre un chilometro lungo il confine. A inizio febbraio le ruspe e gli operai – sotto l’occhio attento dell’UNIFIL – hanno iniziato a ampliare la barriera alta sette metri attrezzata con telecamere e sensori di movimento.

Ma pochi giorni fa un ragazzo libanese con problemi psichici è riuscito ad attraversare il confine e ad entrare a Metula, una piccola città israeliana a pochi metri dal muro. E’ stato interrogato e rimandato indietro immediatamente. 

“Capita che i sostenitori di Hezbollah vengano a sventolare le loro bandiere al confine”, ci racconta Rut, diciottenne che lavora in una boutique hotel in stile Bauhaus nel centro di Metula. “Poco tempo fa Hezbollah ha piantato una bandiera con una scritta in arabo: ‘attenti stiamo arrivando’. Per assicurarsi che capissimo il messaggio lo hanno scritto anche in ebraico”.

Rut, 18 anni, vive a Metula, una piccola città a pochi metri dal confine con il Libano (Elia Milani)

Ma Rut, nonostante la giovane età, è abituata alle minacce. Non ha paura perché, come ripete, niente è come la guerra, quella vera, che ha sperimentato nel 2006. “Avevo sei anni ed ero a giocare nel salotto quando un gruppo di soldati israeliani è entrato in casa e mi ha detto di andarmene: da quel momento tutto l’edificio era sotto il controllo dell’esercito”.

Dodici anni dopo quella guerra durata 34 giorni ora sul confine regna una calma apparente. “Io oggi sono serena… e sono sicura che anche dall’altra parte ci siano persone come me, che non vogliono una guerra ma solo essere felici e godersi la vita”.

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Isaac, il sopravvissuto alla Shoah costretto a vendere accendini per le strade di Israele

Come ogni mattina Isaac si sveglia, fa colazione con la moglie Golda mentre accarezza i suoi gatti Shula e Lucky. Insieme all’inseparabile bastone esce dal suo appartamento al quarto piano di una palazzina alla periferia di Beer Sheva e, a fatica, scende le sette rampe di scale spingendo avanti a sé il carrello pieno di oggetti che spera di vendere per strada durante il corso della giornata.

Isaac, Beer Sheva, gennaio 2018

“Ogni giorno, dal mattino, mi metto a vendere penne, pile e accendini per portare a casa qualche soldo in più”, racconta Isaac mentre sistema su una coperta marrone i barattoli pieni di oggetti comprati a uno shekel e rivenduti a due. “Qui a Beer Sheva c’è una grande università e molti studenti si fermano a comprare qualcosa. Al giorno porto a casa l’equivalente di 10-15 euro”.

Isaac è un superstite della Shoah, uno degli 85mila ebrei sopravvissuti all’Olocausto che vivono sotto la soglia di povertà. E a 81 anni non avrebbe mai pensato di finire a vendere accendini per strada. 

Isaac Segal, 81 anni, sopravvissuto alla Shoah

Oggi Isaac è malato e non ce la fa ad arrivare a quella che chiama “la sua postazione”, il supermercato a 300 metri da casa dove tutti lo conoscono. “La gente gli vuole bene, gli compra spesso qualcosa da mangiare”, racconta la commessa Hanna. “Fa male vedere una persona con la sua storia costretta a fare l’ambulante”.

“Molti gli fanno piccole offerte”, dice Bar, giovane addetto alla sicurezza. “A quel punto lui inizia a raccontare lunghe storie sull’Olocausto e su quello che ha passato quando era in Romania durante la guerra”.

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Perché prima di diventare un povero anziano costretto a fare il venditore ambulante per comprarsi da mangiare Isaac ha provato sulla sua pelle la vera sofferenza: aveva 8 anni quando la seconda guerra mondiale ha sconvolto la sua vita e quella della sua famiglia.

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Nazionalisti, pacifisti, bamboccioni e ultraortodossi: giovani israeliani alle prese con la leva militare

Eden e Neriya parlano del loro futuro con occhi sognanti: tra pochi mesi lasceranno le loro famiglie per andare a combattere con Tzahal, l’esercito israeliano. Saranno tre anni di servizio militare per Neriya, due per Eden. “Non abbiamo paura, ora tocca alla nostra generazione difendere la nostra terra”.

Neriya e Eden, studenti del “pre-army program” nella scuola di Kfar Adumim, Cisgiordania

I due ragazzi, entrambi 18 enni, raccontano i loro sogni seduti dentro l’aula di una Mehina (una scuola preparatoria alla carriera militare) mentre tengono tra le mani il loro libro preferito, un volume azzurro sulla storia del Sionismo. Questa scuola si trova a Kfar Adumim, in una terra che gli israeliani chiamano Giudea, che i palestinesi chiamano Palestina e che la comunità internazionale definisce territorio occupato.

Eden e Neriya fanno parte di quella fetta della società israeliana che crede fortemente nei valori della patria e che non vede l’ora di servire il proprio paese così come hanno fatto in passato fratelli, sorelle e prima ancora i genitori.

 

CLICCA E GUARDA IL SERVIZIO SULLE STORIE DEI GIOVANI ISRAELIANI NELL’ESERCITO    Video Terra!: Le stellette di Davide –

Ma i libri sul sionismo e il patriottismo che si respira nelle Mehina non sono per tutti. Nonostante uno dei più alti tassi di reclutamento al mondo, molti in Israele si rifiutano di unirsi a Tzahal. Esenti dal servizio militare sono gli arabi con cittadinanza israeliana, le donne sposate o con figli, gli ebrei ortodossi che studiano nelle yeshiva (le scuole ebraiche) o le donne religiose che scelgono il servizio civile. Esente dalla leva anche chi dichiara di essere pacifista o chi dimostra di avere problemi fisici o mentali. Pochissimi sono gli israeliani esenti perchè riconosciuti obiettori di coscienza.
Una di loro è Tamar Ze’evi 20 enne di Gerusalemme che un anno fa ha rifiutato di arruolarsi nell’esercito per motivi politici e che per questo ha trascorso 115 giorni in prigione.
 

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Da Israele arriva la app per combattere il cyberbullismo

“Il bullismo c’è da sempre, ma ai tempi dei nostri genitori tutto finiva una volta rientrati tra le mura di casa. Oggi il bullismo è 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Quando un bambino torna da scuola continua ad essere bullizzato attraverso gli smartphone: per lui non esistono più posti sicuri dove rifugiarsi”.

Hanan Lipaskin è israeliano, ha 29 anni e fa l’ingegnere informatico a Gerusalemme. E’ lui l’anima di Keepers Child Safety la start up nata un anno e mezzo fa che ha inventato Keepers, una app per combattere il cyber bullismo: un mezzo a portata di smartphone che permette ai genitori di sapere in tempo reale se i figli vengono insultati o minacciati sui social.

Hanan Lipskin, Ceo di Keepers Child Safety   

 

GUARDA IL VIDEO  Da Israele all’Italia arriva l’app contro i bulli – Video Tgcom24 

 

“Se il bambino manda o riceve un messaggio su Whatsapp, Facebook, Snapchat e Telegram e l’algoritmo riconosce la conversazione come “cattiva” viene subito inviato un avviso ai genitori”, spiega Hanan. “Una volta che le informazioni sono giunte a destinazione i dati vengono cancellati dai nostri server per mantenere la privacy dell’utente”.

Il codice (in ebraico) utilizzato dagli ingegneri informatici di Keepers

In pochi mesi l’applicazione ha permesso di fermare molti casi di bullismo in Israele. “C’erano ragazzi che sui social minacciavano di picchiare alcuni compagni all’uscita della scuola”, racconta il giovane ingegnere informatico. “L’applicazione ha riconosciuto il pericolo e ha avvisato i genitori che sono intervenuti”.

Il lavoro di Keepers Child Safety è cominciato un anno e mezzo fa in seguito a un episodio di cyberbullismo che ha colpito da vicino Arik Budkov, uno dei fondatori della start up. Il miglior amico di suo figlio di 12 anni ha tentato il suicidio provando a lanciarsi giù da un ponte di Gerusalemme perché preso di mira dai compagni di classe che lo insultavano e lo chiamavano “gay”.

Il team della start up Keepers Child Safety – Gerusalemme

L’applicazione è stata lanciata sul mercato il 29 giugno: è sbarcata negli Stati Uniti, in Austria, Germania, Svizzera, Vietnam, Regno Unito ed ora anche in Italia dove in sole due settimane ha raggiunto oltre 5mila utenti.

“Ogni giorno il nostro sistema monitora oltre 2 milioni di messaggi”, racconta orgoglioso Hanan. “L’algoritmo che segue il mercato italiano ci segnala che gli utenti tra i 7 e i 14 anni scrivono messaggi razzisti e dai contenuti sessualmente molto espliciti.
Il nostro obiettivo ora è migliorare la nostra app: in Italia ci sono tanti dialetti e gli insulti usati dai ragazzi variano da regione a regione, da nord a sud, da est a ovest…è un bel casino per noi ingegneri! Ora stiamo perfezionando l’algoritmo in modo che possa riconoscere queste parole ed essere ancora più efficiente”

Twitter@elia_milani