Viaggio a Molenbeek, il quartiere nascondiglio dei terroristi dell’Isis

Che sei arrivato a Molenbeek, lo capisci dalle barbe sempre più lunghe dei ragazzi poco più che ventenni che camminano con le loro jallabie marroni o bianche uno a fianco all’altro.
“Sono un giornalista italiano…”, faccio a uno di loro.
“E quindi?”, mi risponde il ragazzo con un tono di sfida prima di squadrarmi da capo a piedi, sputare per terra e andarsene.
Benvenuti nel quartiere di Bruxelles diventato il nascondiglio dei terroristi islamici.

Molenbeek, Bruxelles (Getty Images)

Molenbeek, Bruxelles (Getty Images)

“Non è vero nulla di quello che si dice, qui il quartiere è tranquillo”, mi racconta un signore turco appena uscito dalla moschea.
“Ma è vero che la gente protegge i terroristi?”, gli chiedo.
“Mi spiace non ti posso rispondere… ho troppi amici qui… e loro sanno che sto parlando con te”.

Nelle strade costellate da macellerie halal, fruttivendoli, pasticcerie che sfornano squisiti dolci al miele e alle mandorle sono passati tanti terroristi. Jihadisti del calibro di Dahmane Abdelsattar, uno degli assassini di Ahmad Massud, il “leone del Panshir” che combatteva i talebani in Afghanistan e che avrebbe potuto scovare Bin Laden se non fosse stato ucciso il giorno prima dell’attentato alle torri gemelle.
Da Molenbeek arrivano anche Youssef e Mimoun Belhadj e Hassan al Haski, le menti degli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004.
Amedy Coulibaly, il terrorista del market kosher di Parigi, si è procurato armi ed equipaggiamento proprio dove Salah Abdeslam è rimasto nascosto per quattro mesi libero di muoversi e di comunicare con gli altri membri del commando jihadista.

Operazione di polizia a Molenbeek il 16 novembre 2015 (Getty Images)

Operazione di polizia a Molenbeek il 16 novembre 2015 (Getty Images)

La casa dove si nascondeva Salah è un caseggiato anonimo con le pareti sbiadite e rovinate vicino a una farmacia sempre molto frequentata. Difficile che nessuno abbia notato movimenti strani nella via dove si nascondeva il super ricercato.
“È vero, ci sono tante persone che proteggono i terroristi qui”, racconta Nadir, 40 anni, kossovaro che ha vissuto in Italia. “Ma non siamo tutti terroristi, qui è pieno di gente onesta che vuole solo vivere serena”.

“Il problema è la mancanza di lavoro e lo spaccio di droga”, ci dice uno studente universitario che lavora a Molenbeek come tassista. “Ma lo Stato non si può nascondere dietro il degrado: ora deve dirci come ha fatto Salah a restare latitante per 127 giorni senza che la polizia lo scoprisse”.

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 Il punto su Bruxelles

La risposta a questa domanda sembra avercela Dimitri, professore di filosofia che per anni ha vissuto nel quartiere prima di trasferirsi a Berlino. “Molenbeek è come uno stato parallelo dove regnano una subcultura e leggi diverse da quelle di Bruxelles, soprattutto tra i giovani“, ci dice. “Qui siamo alla terza generazione di immigrati. Sono questi giovani senza lavoro che subiscono più di altri la fascinazione della propaganda dello Stato Islamico”.

La sera scende. I ragazzi per strada aumentano. Passando vicino a un gruppo di giovani fuori da un bar di fronte al comando di polizia si respira un forte odore di hashish. “Ma che terroristi! Noi vogliamo solo lavorare”, dice un ragazzo alto con i capelli ingellati che per anni ha vissuto a Torino in zona Porta Palazzo.

"De Vaartkapoen", la scultura di Tom Frantzen a Molenbeek (Pinterest)

“De Vaartkapoen”, la scultura di Tom Frantzen a Molenbeek (Pinterest)

A qualcuno la nostra presenza inizia a dare fastidio. La polizia in assetto antisommossa ci prende in disparte: “È meglio se andate via adesso. Non è sicuro”.
Mentre ci allontaniamo in macchina notiamo per la prima volta una statua all’entrata del quartiere: un ladruncolo nascosto dentro un tombino fa lo sgambetto a un poliziotto che, con una faccia stupita, perde l’equilibrio. Una metafora perfetta per Molenbeek.

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In fuga dalla guerra con una Play Station sotto braccio: una storia dalla Libia

Cosa porteresti con te se dovessi scappare da una città bombardata? Quale oggetto metteresti sotto braccio e porteresti fuori dalla tua casa che sta per essere presa di mira dai soldati dell’Isis? Può sembrare una domanda difficile. Non per Ahmed e Bilal due ragazzi libici che vivono a sud di Tripoli.

Loro la guerra la vedono tutti i giorni. La Libia dei sequestri, dell’Isis, e delle milizie jihadiste la respirano ogni mattina nelle strade del loro quartiere. E quando i due sono stati costretti a scappare dalla loro città non hanno avuto dubbi: hanno portato con sé solo la loro Play Station.

(Reuters)

(Reuters)

“Con loro mi diverto a giocare online a Call of Duty, mi racconta Manuel, 13enne veneto appassionato di giochi di guerra e amico virtuale di Ahmed e Bilal. “Hanno la mia età, ma da come parlano sembrano più grandi… sarà per quello che hanno passato…”.

Discorsi tra ragazzi nelle chat virtuali. La guerra vera fuori di casa, quella virtuale “combattuta” chattando con gli amici che vivono dall’altra parte del Mediterraneo da dove presto potrebbero arrivare nuove bombe.

E fa sorridere che Ahmed e Bilal, in fuga da pallottole e colpi di mortaio veri, abbiano salvato solo quella consolle che gli permette di sparare proiettili virtuali a coetanei che la Libia non sanno nemmeno dove si trova.

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Viaggio al confine tra Macedonia e Grecia, il fronte più caldo del sud Europa

“Fa freddo, ma almeno non piove”. Quindici giorni fa la più grande preoccupazione di Hussein Alì era legata al clima. Questo ragazzo alto e con gli occhi sorridenti – afghano sciita di Kunduz – camminava tranquillo insieme a due amici tra le tende del campo profughi di Gevgelija, in Macedonia.

 

Il confine tra Macedonia e Grecia

Il muro di filo spinato a Idomeni, al confine tra Macedonia e Grecia (Ansa)

“Nella mia città i talebani e l’Isis vogliono tagliare la testa a noi sciiti”, raccontava subito dopo aver attraversato il confine. Nelle sue parole la preoccupazione per la sua famiglia rimasta a Kunduz, nei suoi occhi la speranza per il futuro e il sogno di un’Europa sempre più vicina.

“Ho amici della mia città che stanno scappando, tra qualche giorno saranno qui”, diceva. Purtroppo in 15 giorni la situazione è cambiata qui al confine sud dell’Europa. Oggi gli amici di Hussein Alì non sono più i benvenuti. Possibile che proprio ragazzi come loro fossero tra i profughi che il 29 febbraio hanno tentato di sfondare il muro di ferro costruito sul confine greco.

Quindici giorni fa al confine c’erano già i primi blocchi: si facevano passare solo siriani, iracheni e afghani. Per gli altri il viaggio della speranza finiva.

Da settimana scorsa anche gli afghani sono stati bloccati: nessun permesso di accesso in Serbia e Macedonia. Venerdì 26 febbraio Slovenia, Croazia, Serbia e la stessa Macedonia hanno imposto un limite di 580 accessi giornalieri nel tentativo di scoraggiare le partenze per la cosiddetta “rotta balcanica”. E così giorno dopo giorno il campo profughi di Idomeni, in Grecia, a 50 metri dal confine macedone, si riempiva di nuovi arrivati.

 

GUARDA IL SERVIZIO DI “TERRA” SUL VIAGGIO AL CONFINE MACEDONE 

 Europa alla frutta

 

A controllare la zona non solo la polizia di Skopje ma anche le forze dell’ordine inviate da Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia a difesa del confine di un paese che non fa parte dell’Unione Europea ma che di fatto è diventato l’ultimo baluardo contro l’ondata migratoria da sud.

Ma la gente non si ferma. Ieri gli scontri e la tensione alle stelle.

Solo 15 giorni fa tutto sembrava più tranquillo. Il flusso continuava regolare. “Qui passano una media di 2500 persone al giorno”, ci aveva detto Jesper Provin Jensen, responsabile Unicef del campo profughi.

Oggi gran parte di quelle persone sono bloccate in Grecia. Ma non hanno nessuna intenzione di fermarsi.

Solo 15 giorni. Tanto basta di questi tempi a trasformare un luogo di transito nei Balcani nella zona più calda d’Europa.

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