Vita nel Califfato, tra manichini velati, chiese distrutte, bombe Usa e viaggi di nozze

 

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Miliziani dello Stato Islamico a Raqqa, Siria (Ap)

Teste mozzate, coltellacci insanguinati, bandiere nere e folle di barbuti che imbracciano un fucile gridando al mondo la grandezza di Allah. Sono i mujahidin dell’Isis, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, gruppo terrorista sunnita che nel mondo arabo chiamano Da’ish. Le imprese di questi soldati che con il volto coperto e vestiti di nero promettono morte agli infedeli hanno preso in contropiede il mondo dell’intelligence (americani e sauditi su tutti) rimasto stupito della rapidità del successo militare. Agli occhi degli analisti questo gruppo terrorista sembrava poco più di un insieme di fanatici, come ce ne sono tanti in Medio Oriente. Questo fino alla sera del 29 giugno scorso quando, all’inizio del Ramadan, veniva proclamata la restaurazione del Califfato Islamico, una resurrezione 100 anni dopo la fine del Califfato Ottomano, defunto alla fine della Prima Guerra Mondiale. Ora il Califfato è rinato e alla sua guida c’è Ibrahim Abu Bakr al Baghdadi, l’esperto di studi teologici iracheno che ha guidato i suoi alla conquista del Medio Oriente. Nelle siriane Raqqa, Dei aZ-Zur, e nelle irachene Falluja, Tikrit e soprattutto Mosul (la seconda città dell’Iraq con 2milioni e 800 mila abitanti, poco meno di Roma) oggi sventola la bandiera nera. Una cavalcata trionfale che ha attirato l’attenzione dei governi di tutto il mondo preoccupati per il fascino che questo stato dei “puri” sta avendo sui giovani sparsi in tutto il mondo. Ecco allora l’invio di droni americani: Washington è preoccupata per l’incolumità dei suoi connazionali, per quella dei cristiani d’Oriente e, soprattutto,  per la diffusione di un movimento che ha come obiettivo quello di “far sventolare la bandiera nera sopra la Casa Bianca”. In queste ore aerei senza pilota stanno colpendo postazioni strategiche nello Stato Islamico. Ma i danni non sembrano fermare il gruppo di Al Baghdadi che dopo gli scontri a fuoco contro l’esercito iracheno e curdo lavorano giorno e notte al rafforzamento di uno Stato dove la parola di Allah è legge.

SHARI’A E MANICHINI
“Siamo uno Stato, non un gruppo e dobbiamo organizzare ogni aspetto della vita”, ha detto a Vice Abu Mousa, l’addetto stampa del Da’ish. In uno Stato che si rispetti ci vogliono norme da seguire. La legge dell’Isis è la shari’a, o meglio, un’interpretazione radicale dei dettami del Corano. A chi ruba spetta la galera, frustate o l’amputazione della mano. I pochi cristiani che ancora vivono nelle città controllate dall’Isis in teoria sono tollerati, in pratica si fa di tutto per render loro la vita difficile. I negozi con il crocifisso sono permessi a patto che chiudano l’attività durante la preghiera (5 volte al giorno). Ai cristiani è stato chiesto ufficialmente di convertirsi. Chi non ha accettato deve pagare la jizya, una tassa speciale. “A chi si rifiuta di pagare spetta la morte”, ha ricordato Abu Abdula, un giudice di Raqqa. Gli accordi sono stati firmati ma molti cristiani hanno preferito scappare dopo che molte chiese sono state chiuse o distrutte. Drappi neri sono stati posati sugli altari e le statue dei santi sono state fatte a pezzi a colpi di mazza. A Mosul per la prima volta dopo 1600 anni non è stata celebrata una messa. E al terrore tra i cristiani si aggiunge quello tra gli sciiti: le loro moschee sono state demolite perché, dicono i jihadisti, “meta di apostasia”.

Il rispetto della legge è garantito dall’Hisba, la “polizia religiosa”. Una pattuglia controlla le strade della città a bordo di un camioncino. L’obiettivo è “godere del bene e evitare il male” (dice la scritta sulle portiere dei mini van), uno slogan che si traduce nel correggere i comportamenti “inappropriati” dei passanti: evitare un velo troppo poco spesso o un abbigliamento inadeguato.

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Manichini velati nei negozi di Mosul (Ap)

Nelle città controllate dall’Isis a tutte le donne è stato imposto il niqab (velo integrale). “Un pullman è stato fermato per un controllo e una donna è stata fatta scendere”, ha raccontato al New York Times un commerciante iracheno. “Le hanno detto di andare a casa a cambiarsi perché non era decente: il bus è rimasto fermo un’ora e mezza fino a quando la donna è tornata completamente velata”. Ai negozianti di Mosul è stato anche imposto di coprire con un velo i volti dei manichini (sia in versione maschile che femminile) in nome di una stretta interpretazione della shari’a che vieta qualsiasi riproduzione della forma umana. Questa è la legge. Che vieta anche la musica in grado di distrarre dal pensiero di Dio (lo stesso facevano i Talebani sotto il Mullah Omar). O che non tollera i simboli della cultura assiro babilonese: sculture e monumenti millenari vengono distrutti perché possibile oggetto di idolatria.

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Lo Stato Islamico ha imposto ai commercianti di Mosul di velare i manichini, sia in versione maschile che femminile (Ap)

TURISMO NEL CALIFFATO E PASSAPORTI
I confini dello Stato Islamico non sono ancora chiari. Il progetto dell’Isis è quello di conquistare tutto l’Iraq, la Siria, il nord Africa, l’Andalusia e la Turchia. Un sogno difficilmente realizzabile anche se al momento il Califfato si estende su un’area più vasta della Gran Bretagna, abitata da almeno sei milioni di persone, più di quante ce ne siano in Danimarca, Irlanda o Finlandia. Il territorio controllato va dall’est della Siria all’ovest dell’Iraq. Il confine tra i due stati non esiste più, distrutto dai jihadisti e dalle loro ruspe. La separazione tra Siria e Iraq era frutto degli odiati accordi di Sykes-Picot del 1916: un simbolo del colonialismo europeo cancellato con un’azione spettacolare per far capire a tutti che ora la geografia del Medio Oriente viene ridisegnata da loro, a colpi di kalshnikov e bombe.

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L’immagine del passaporto dell’Is: in alto la scritta “Califfato Islamico”. Nella parte inferiore si legge: “Se il possessore di questo passaporto sarà ferito, dispiegheremo le armi per onorare il suo servizio” (Twitter)

Confini incerti e una diffusione a macchia di leopardo. Eppure sembra che l’Isis abbia iniziato a diffondere i suoi passaporti. Un modo per dare un’identità agli aspiranti jihadisti di tutto il mondo che stanno lasciando le loro case in Egitto, Tunisia, Belgio, Italia e America per andare a vivere nel rinato Califfato. I video dei giovani combattenti che attorno a un fuoco stracciano i loro vecchi passaporti mostrano un rito di passaggio, la trasformazione di un ragazzo in un jihadista. Stracciata la vecchia identità è ora di proiettarsi nella guerra santa in quella che sta diventando la Mecca degli estremisti, Raqqa, la capitale dello Stato Islamico. I ragazzi egiziani, tunisini, giordani, sauditi e ceceni ma anche americani, britannici, russi e belgi una volta arrivati nel Califfato cambiano nome in base alla loro origine. E diventano Al Belgique (se nati a Bruxelles), Al Shishani (se nati in Cecenia) o Al Baghdadi, come il Califfo, nato a Baghdad il cui vero nome è Ibrahim ibn Awwad.

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Giovani miliziani strappano il loro vecchio passaporto e lo bruciano: un rito di passaggio che sancisce l’entrata dei nuovi jihadisti nello Stato Islamico (You Tube)

 

AAA CERCASI MOGLI E INGEGNERI
Il Califfato ha bisogno di nuovi adepti. E così si incentivano i matrimoni da cui dovranno nascere i nuovi jihadisti. Ad agosto è stata aperta ad Aleppo un’agenzia dove si organizzano matrimoni e viaggi di nozze con un’unica destinazione, lo Stato Islamico. Due volte a settimana un pullman è sempre pronto ad accompagnare nuovi visitatori dentro il Califfato nella regione irachena dell’Anbar: a bordo i curiosi sono intrattenuti dalle immagini delle gesta dei mujahidin trasmesse nei piccoli televisori del bus. Uno dei leader del Is, il ceceno Al Shishani, è stato tra i primi a organizzare il viaggio di nozze con questa agenzia. Con i bombardamenti dei droni i pullman sembrano aver ridotto il numero dei viaggi. Ma l’intenzione è chiara: i guerrieri dell’Isis sono in cerca di mogli. Le donne interessate sono invitate a lasciare il loro nome e indirizzo all’agenzia che le metterà in contatto con i combattenti. Ci vogliono figli, nuovi jihadisti pronti a combattere il nemico.

Tra i vogliosi di jihad e martirio sembrano però mancare le competenze necessarie alla costruzione di un vero stato. Tra i nuovi arrivati ci sono ottimi combattenti disposti a sacrificare la loro vita per il Califfo ma mancano i professionisti. Ecco allora arrivare la chiamata di Al Baghdadi: “Tutti coloro in grado di trasferirsi nello Stato Islamico dovranno farlo, perché l’immigrazione nella casa dell’Islam è un dovere”.  Una chiamata rivolta soprattutto a giudici e a musulmani con abilità manageriali come medici e ingegneri. Se basta il furore e la rabbia per distruggere una chiesa o per issare una bandiera, ci vogliono conoscenze specifiche per far funzionare le tubature di una città o per far fronte ai continui black out. Ci vuole gente esperta anche per la gestione dell’estrazione del petrolio. Il Califfato controlla molti pozzi petroliferi in territorio iracheno e siriano. Da lì estrae l’oro nero che viene venduto sottobanco ai governi di Damasco e di Baghdad. Secondo l’Iraq Oil Report il contrabbando di greggio dall’Isis all’Iraq porterebbe nelle casse del Califfato un milione di dollari al giorno.

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Un pozzo petrolifero nella provincia di Deir az-Zur sotto il controllo dello Stato Islamico: qui si trovano le riserve di petrolio più grandi della Siria (Ap)

 

I GIORNALI DEL CALIFFO E LA DISTRUZIONE DELLA STORIA
I nuovi jihadisti che nasceranno dovranno essere ben istruiti. Nel Califfato sanno quanto è importante la passione per una storia condivisa. Il Da’ish è nato nella terra, culla delle civiltà Sumera, Babilonese e Assira. Ma oggi a rendere orgogliosi gli iracheni che abitano sulle sponde dell’Eufrate e sul Tigri non sono i gioielli dell’architettura come le zigurrat ma le bandiere nere con impressa la shahada, “La ila illa Allah”, non c’è altro Dio all’infuori di Allah. In questi luoghi intrisi di storia i simboli, le statue e i monumenti di un passato glorioso non sono più tollerati dai terroristi. Ecco allora la sistematica distruzione di pezzi di Storia in nome di una iconoclastia paragonabile a quella che ha animato i talebani nel 2001 nel fare a pezzi i giganteschi Buddah di Bamiyan scavati nella pietra. L’odio per i reperti archeologici sparisce quando è il momento di fare cassa. Secondo il Daily Beast la maggior parte delle entrate dell’Isis arriva proprio dalla vendita di reperti archeologici saccheggiati in Siria e in Iraq e rivenduti sul mercato nero.

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“Dall’emigrazione al Califfato”, l’articolo sulla nascita dello Stato Islamico sul primo numero della rivista Dabiq

Queste operazioni sono tenute segrete. Altre, quelle più spettacolari, sono diffuse attraverso video, foto e ora anche un giornale, Dabiq. La rivista si ispira alla storica battaglia fra ottomani e mammelucchi del 1516 a Marj Dabiq, a nord di Aleppo, che portò alla formazione del Califfato ottomano. La versione cartacea è distribuita all’interno dello Stato Islamico, quella digitale è online alla portata di tutti, sia in arabo sia in inglese. Facile da consultare anche il dettagliatissimo report annuale sui successi militari dell’organizzazione: secondo questo documento nel 2013 sono state eseguite 7681 operazioni tra assalti, attacchi suicidi, liberazioni o cattura di prigionieri. Un trend in aumento rispetto all’anno precedente.

“IL CALIFFATO E’ PIU’ SICURO DELLA SIRIA”
Ora la Grande Coalizione anti terroristi ha dichiarato guerra allo Stato Islamico. Oltre ai droni americani anche gli aerei francesi hanno iniziato a colpire il cuore del Califfato. E dire che prima delle bombe “amiche” i territori controllati dai jihadisti non era visti solo come culla dell’estremismo, ma anche come un luogo dove cercare stabilità e pace. Alcuni commercianti siriani, intervistati dal New York Times, stufi di vivere in un paese in perenne conflitto (la Siria) hanno deciso di abbandonare il loro negozio di Aleppo per venire a vivere nelle zone controllate dal Califfato. “Una valida alternativa alla guerra”, dicevano. Ora con le bombe americane ed europee la tranquillità è sempre più lontana. Per i siriani e gli iracheni sembra proprio non esserci mai pace.

twitter@elia_milani