“La ragazza di Homs”: una storia d’amore tra guerra, migrazioni e speranza

Leila è una ragazza siriana disposta a tutto per seguire l’amore e per mettere in salvo la sua famiglia in fuga dalla guerra. Una ragazza forte e determinata che si lascia bruciare dalle passioni: quella per la libertà (che la spinge a unirsi alle prime proteste anti Assad) e quella per il suo fidanzato Bilal.
Leila è un personaggio di fantasia ispirato a una persona vera, la protagonista del romanzo “La ragazza di Homs“, scritto dalla giornalista italo siriana Susan Dabbous.

“Dietro a Leila c’è Bir, una ragazza in carne e ossa che ho conosciuto”, racconta la giornalista durante la presentazione del suo libro in un elegante salotto a Gerusalemme Est. “Tutti i nomi delle persone presenti nel libro sono inventati ma i fatti che descrivo sono realmente accaduti a uomini e donne che ho incontrato nel corso dei miei anni passati in Medio Oriente e in Italia”.

Susan Dabbous durante la presentazione del libro “La ragazza di Homs” a Gerusalemme (foto Giona Messina)

Homs, Beirut, Tripoli. Poi Lampedusa, Palermo e Milano. Sono i luoghi di Leila che fanno da sfondo all’odissea (sua e della sua famiglia) che rappresenta in modo paradigmatico il dramma e la speranza di un popolo. Continua a leggere

Caschi Bianchi: una storia tra guerra, Oscar e polemiche

“La vera vittoria non è stato l’Oscar… la vera vittoria è essere riusciti a salvare anche oggi una bambina colpita dalle bombe piovute su Idlib”.

A parlare è Khaled Kateeb, uno dei 3300 volontari di White Helmets, i caschi bianchi siriani, organizzazione umanitaria nata durante la guerra civile che lotta per salvare le vittime dei bombardamenti in Siria. La pellicola prodotta da Netflix che racconta le loro storie ed è stata premiata alla notte degli Oscar come miglior cortometraggio.

I Caschi Bianchi salvano una bambina a Idlib nelle stesse ore in cui il cortometraggio White Helmets viene premiato con l’Oscar a Los Angeles (Twitter)

White Helmets è una storia che parla di eroi. In 40 minuti il regista Orlando von Einsiedel racconta le esperienze di tre componenti del gruppo alternando riprese amatoriali, video effettuati sul luogo e interviste: un vero e proprio racconto degli orrori della guerra civile siriana.

Eppure da tempo l’organizzazione è al centro di polemiche per presunti legami con gruppi estremisti e per la provenienza dei finanziamenti che le permettono di andare avanti. La nebulosa siriana è indecifrabile: difficile conoscere in maniera netta e chiara i confini che separano le dozzine di gruppi attivi nella guerra.

I detrattori dei Caschi Bianchi parlano di un gruppo sostenuto dai governi di Washington, Londra e Berlino il cui vero scopo sarebbe promuovere la caduta di Bashar al Asad. I video dei White Helmets indicano come responsabili di tutte le atrocità il dittatore siriano e il suo alleato russo Putin rendendo agli occhi dell’Occidente ancora più urgente e necessario un cambio di regime in Siria.

Chi attacca i White Helmets parla di un gruppo costituito da soggetti legati a gruppi jihadisti vicino ad Al Qaeda e da veri e propri “manipolatori digitali” in grado di produrre video artefatti, inscenando falsi salvataggi per uno scopo non umanitario ma politico.

La pagina Twitter dei White Helmets – Idlib (Twitter)

Hollywood – e gran parte della comunità internazionale – non credono a queste accuse. I Caschi Bianchi sono stati candidati al Premio Nobel per la Pace nel 2016, hanno vinto la statuetta nel 2017 e ora George Clooney sta già pensando di girare un film sulla loro storia.

La politica di Washington invece sembra più cauta. Nei giorni precedenti alla premiazione a Los Angeles le autorità statunitensi per l’ immigrazione hanno vietato l’ingresso nel Paese al direttore della fotografia del cortometraggio, Khaled Khateeb, 21 anni, siriano. Khateeb sarebbe stato trattenuto in Turchia dopo aver già ottenuto il visto per entrare negli Usa.

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Troppi morti nelle città siriane: arrivano i cimiteri multi-piano

Cimitero Duma, Siria

Gli addetti alla costruzione del cimitero multi-piano, Duma, Siria (foto Consiglio della città di Duma)

In Siria non c’è più spazio nemmeno per i morti. Troppi i cadaveri rimasti vittima di una guerra civile che dura ormai da cinque anni e mezzo. Nei cimiteri di Duma, città a 10km a a nord-est di Damasco, è impossibile seppellire i nuovi defunti. E così i 110mila abitanti sopravvissuti alla guerra si sono inventati un nuovo modo per dare una degna sepoltura ai propri cari: costruire cimiteri su più livelli per permettere ai morti di riposare nella terra dove sono nati e cresciuti.

In questa parte della Siria è impossibile pianificare la costruzione di nuovi cimiteri. Le autorità hanno quindi optato per la creazione di “necropoli in verticale” che fa rassomigliare i cimiteri musulmani a moderne catacombe a cielo aperto, loculi costruiti uno sopra l’altro.

Cimitero Duma, Siria

Inumazione di un defunto nel cimitero di Duma (foto Consiglio della città di Duma)

“Mano a mano che i nostri morti aumentavano li seppellivamo fuori dalle mura della città”, racconta Adnan Mudvir, il responsabile del cimitero di Duma. “Il numero dei cadaveri cresceva a dismisura e così abbiamo iniziato a seppellire i nostri morti in cimiteri a più strati“.

Al posto di gettare i cadaveri nelle fosse comuni le autorità di Duma hanno destinato 40 metri quadrati per accogliere le vittime dei bombardamenti russi e del regime siriano. Sono stati pianificati sei livelli, ognuno dei quali sarà in grado di accogliere migliaia di loculi vuoti che, si teme, verranno riempiti nel giro di pochi mesi.

Cimitero di Duma, Siria

Gli addetti alla costruzione del cimitero multi-piano, Duma, Siria (foto Consiglio della città di Duma)

“Siamo costretti a costruire un cimitero simile perché ogni giorno vengono uccise dozzine di persone”, ha raccontato all’Anadolu Agency Halid Ballah, impiegato nel cimitero della città.

Cimitero Duma, Siria

Un addetto alla manutenzione del cimitero di Duma (foto Consiglio della città di Duma)

Nell’agosto 2015 un bombardamento dei caccia di Assad su Duma ha causato la morte di 115 persone. Ad oggi il numero dei morti causati della guerra civile è stimato tra i 250 e i 470 mila. E la guerra non si ferma. Il numero delle vittime e di questi nuovi cimiteri multi-piano è destinato inevitabilmente a salire.

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Lo Stato Islamico compie un anno: i primi 365 giorni del Califfato nero

Sulla strada dissestata che da Byblos porta a Beirut un tweet ci informava della nascita dello Stato Islamico. Era il pomeriggio del 29 giugno di un anno fa. Ero arrivato in Libano due giorni prima e dopo un pomeriggio di mare sulle spiagge di Jounieh un cinguettio mi riportava alla realtà: 140 caratteri in cui sentivo per la prima volta la parola Daesh, acronimio di Dawla Islamiyya fi Iraq wa Sham, Stato Islamico in Iraq e Siria. Non potevo immaginare che da allora quel nome – in tutte le sue varianti: Isil (Islamic State of Iraq and the Levant), IS (Islamic State) o il più diffuso Isis (Islamic State of Iraq and Syria) – avrebbe riempito le orecchie, le menti e i discorsi di tutti.

http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2015/04/29/isis-il-califfato-rilascia-certificati-di-nascita.-foto-shock-neonato-con-bomba-e-pistola-_368a5ae2-a919-49ff-8e82-7f69b4288233.html

Jarrah, bambino nato nello Stato Islamico il 23 aprile scorso: accanto a lui il certificato di nascita, una bomba a mano e una pistola (Twitter)

 

Solo un anno, ma sembra di più. 365 giorni trascorsi dall’inizio di una rivoluzione islamista che ha sconvolto milioni di vite e che ha ridisegnato i confini del cuore del Medio Oriente. Quell’area che una volta apparteneva a due stati diversi – Iraq e Siria – oggi è diventata un unico blocco pulsante.

Allora Beirut era distratta dai Mondiali di calcio ma nei bar e nei locali libanesi si percepiva un misto di timore e curiosità nei confronti di quell’entità nera nata a pochi chilometri dal Paese dei Cedri. Oggi quella nebulosa jihadista si è consolidata. Grazie a internet e alle televisioni l’Isis è entrato nelle case di tutti attraverso le immagini di decapitazioni; attraverso il volto coperto di Jihadi John e di quello terrorizzato del pilota giordano bruciato vivo; attraverso la distruzione di statue e reperti millenari e delle decine di video propagandistici degni di una produzione hollywoodiana. Dietro a quel mix di violenza e propaganda cresceva una nuova entità che si è mantenuta in vita grazie alla vendita di petrolio sul mercato nero, al contrabbandando di reperti archeologici e ai finanziamenti dei ricchi stati del Golfo.

 

Miliziani dello Stato Islamico con la bandiera del campo di addestramento Sheikh Abu Ibrahim (Twitter)

Miliziani dello Stato Islamico con la bandiera del campo di addestramento Sheikh Abu Ibrahim (Twitter)

E così in un solo anno, in quelle terre prima siriane e irachene, la vita è drasticamente cambiata. Perché, al di là della propaganda, oggi lo Stato Islamico è quel posto dove gli uomini si cospargono di colonia per nascondere l’odore del fumo di sigarette, ora rigorosamente vietate. E’ quella galassia di città e villaggi dove le radio sono sintonizzate su “Radio Isis”, perché se ascolti musica (proibita) ti becchi 10 frustate. E’ quello pseudo stato dove i negozi chiudono all’orario di preghiera (5 volte al giorno) e dove le donne sono figure nere che camminano per strada rasenti ai muri, coperte dalla testa ai piedi. Lo Stato Islamico è il posto dove i miliziani in nero hanno trasformato uno stadio di calcio in una prigione e in un centro di interrogatori e dove la piazza centrale di Raqqa (la capitale) è stata soprannominata “Saha Jahim” (Piazza Inferno) perché lì vengono giustiziati i rei, uccisi e lasciati a marcire al sole per giorni, come monito.

 

La piazza di Raqqa chiamata "Saha Jahim" (Piazza Inferno): teatro delle esecuzioni pubbliche (You Tube)

La piazza di Raqqa chiamata “Saha Jahim” (Piazza Inferno) teatro delle esecuzioni pubbliche (You Tube)

Per far rispettare le leggi è stata istituita la Hisba, la polizia religiosa. Vigilantes armati con lunghe tuniche in stile afgano che a bordo di Suv pattugliano le strade delle città per scovare (e punire) comportamenti non conformi alla Shari’a, la legge islamica. I poliziotti annusano i vestiti degli uomini (per sentire l’odore di sigarette) e rimproverano le donne considerate impropriamente velate o gli uomini che vestono in abiti occidentali o con acconciature “sconvenienti”.

Chi non rispetta le leggi viene punito. Prigione o frustate. Un numero imprecisato di persone sono state uccise perché ritenute pericolose per lo Stato Islamico o perché considerate troppo poco devote. Qualcuno è stato giustiziato nella pubblica piazza, altri sono spariti nel nulla. Ai famigliari più “fortunati” è stato recapitato un certificato di morte – che però non specifica dove si trovi il corpo del defunto e in quali condizioni – o un dvd contenente il video della decapitazione dello “scomparso”.

Dentro lo Stato Islamico chi è stato etichettato come infedele o “poco devoto” è costretto a portare sempre con se una bitaqa at-tawba, la carta del pentimento: un foglio che certifica il momento in cui di fronte a una corte ci si è pentiti del proprio passato “eretico”.

 

Chi è stato etichettato come infedele o “poco devoto” è costretto a portare sempre con se una bitaqa at-tawba: un foglio che certifica il momento il pentimento del proprio passato “eretico” (AP)

Chi è stato etichettato come infedele o “poco devoto” è costretto a portare sempre con se una bitaqa at-tawba: un foglio che certifica il pentimento del proprio passato “eretico” (AP)

Le imprese dell’Isis e la chiamata del Califfo a tutti i musulmani hanno attirato dentro i confini dello Stato Islamico uomini, donne, ragazzi e ragazze da tutto il mondo. Tunisini, egiziani, sauditi, giordani, libici. Ma anche musulmani inglesi, francesi, americani, belgi, spagnoli e svedesi. Oltre 16mila foreign fighters da più di 90 paesi (secondo il rapporto annuale del dipartimento di Stato americano) che nel 2014 hanno lasciato le loro famiglie per unirsi alle brigate che lottano per il Califfo Al Baghdadi.

Jarrah è nato il 23 aprile 2015. Una foto diffusa via Twitter lo mostra vicino al suo certificato di nascita con impressa la bandiera nera del Califfato, una pistola e una bomba a mano. I suoi occhi sono ancora chiusi. Quando li aprirà per lui inizierà una vita di indottrinamento. Un’esistenza devota al Califfo e al suo progetto di espansione di uno stato jihadista che molti, un anno fa, credevano destinato a disgregarsi nel giro di un’estate e che invece ora si prepara a festeggiare il suo primo anniversario.

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Libri e shari’a: ecco come funziona la scuola nello Stato Islamico

Guerra e decapitazioni. Barbe lunghe e kalashnikov. Campi d’addestramento e martiri. Ma l’Isis non è solo questo. Il consolidamento dello Stato Islamico parte dai banchi di scuola. E’ nelle madrase che dal giugno scorso si studia su libri nuovi, volumi epurati dalla gerarchia dell’Isis per essere conformi ai dettami della shari’a.

I libri di fisica e di chimica contengono molte leggi empie, dobbiamo stare attenti a non contaminare le menti dei bambini che studiano nei territori controllati dall’Isis”, ha raccontato al sito Syria Deeply Balqis, una ex professoressa di Raqqa, la città siriana capitale del Califfato nero.

E’ da questa città che il nuovo “verbo” viene diffuso. E’ qui che inizia la formazione dei nuovi insegnanti e una “rivisitazione ed epurazione” dei programmi di studio tradizionali. Perchè dall’insediamento del nuovo Califfo, matematica, fisica, storia e chimica si studiano su libri rivisti e corretti in modo da non contraddire le leggi di Allah.

Prima dei campi di addestramento militare, sono le pagine dei nuovi libri che plasmano la mente e il cuore dei jihadisti di domani. Aboliti i curriculum precedenti, i residenti hanno dovuto bruciare i vecchi manuali scolastici oggi considerati una violazione della legge divina. Chi non si è voluto piegare alle nuove regole è stato costretto a scappare.

Una sezione femminile di una scuola a Raqqa (Al Shurfa)

Una sezione femminile di una scuola a Raqqa (Al Shurfa)

Chi garantisce il rispetto delle norme è la Brigata al Khansaa, un gruppo di sole donne nato dopo la nascita del Califfato. Questo gruppo ha organizzato a Raqqa un seminario per  la formazione degli insegnanti a cui ha partecipato anche Balqis, la ex professoressa siriana poi fuggita in Turchia, da dove ha raccontato la sua storia.

Per 6 mesi noi insegnanti non abbiamo ricevuto lo stipendio dal governo. Mio marito è stato arrestato dall’Isis. Ho deciso di unirmi al gruppo insegnanti dello Stato Islamico: pensavo che se avessi collaborato con loro mio marito sarebbe stato liberato…e poi avevo bisogno di guadagnare qualcosa per la mia famiglia e i miei figli… Tutto è diventato più costoso dopo l’inizio dei bombardamenti della coalizione.

Sono andata al Centro educativo della città ora rinominato “Institution of Ayesha Om al-Moamneen” (il nome della moglie di Maometto). C’era un forte profumo di incenso e niente era più come prima. Tutti i libri erano stati portati via, tutto era coperto con drappi neri…gli unici libri che si potevano trovare erano volumi sulla giurisprudenza islamica […] C’erano molte copie di un libro chiamato “La guida del credente”, che veniva distribuito insieme ad altri libricini su temi religiosi. Prima in quel posto c’era un teatro adibito a eventi culturali, ora c’è un grande tavolo sommerso di libri sul monoteismo, la giurisprudenza e altre materie islamiche.

Dopo 10 minuti un gruppo di donne è entrato nel teatro indossando un chador, un vestito che copre tutto il corpo come quelli che si usano in Afghanistan, molto diverso da quelli che usiamo in Siria. Una delle donne si è alzata il velo mostrando il volto. Ha posato la sua pistola sul tavolo mentre le altre donne rimanevano in piedi accanto a lei, armate, senza mostrare il loro viso. La situazione era tesa e avevamo paura. Una di loro ci ha consegnato alcuni fogli su cui si trovavano le nuove istruzioni da seguire nelle scuole. La donna ha iniziato il suo discorso recitando alcuni versi del Corano. […] si esprimeva in arabo classico… parlava del ruolo dell’Isis […] nel contrastare l’Occidente e gli infedeli. Poi ha parlato dei doveri di noi insegnanti. Il suo tono è diventato più tagliente… è diventato ancora più duro quando si è messa a parlare della blasfemia dei vecchi programmi di insegnamento.

Bambini in una classe a Deir al Zur, città sotto il controllo dello Stato Islamico (Al Shurfa)

Bambini in una classe a Deir al Zur, città sotto il controllo dello Stato Islamico (Al Shurfa)

La donna ripeteva che i nostri libri di poesia […] i libri di scienze erano pieni di bugie, blasfemia e manipolazioni…diceva che in quei testi la creazione di Dio era stata corrotta per propositi mondani… […] diceva che la genetica e la teoria di Darwin non hanno niente a che fare con la verità ma che erano un modo per mettere in discussione e indebolire il nostro credo in Dio. Ha detto lo stesso della fisica e della chimica, materie che contengono molte leggi impure. Ci ha ripetuto che dobbiamo stare attenti a non corrompere le menti dei nostri bambini.

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Isis, “largo ai giovani”: il campo di addestramento dei baby mujahidin

Bambini soldato nel campo di addestramento dell'Isis (You Tube)

Bambini soldato nel campo di addestramento dell’Isis (You Tube)

Ragazzini vestiti di nero, in fila, uno vicino all’altro. L’insegnante barbuto si avvicina. E inizia a colpire le giovani reclute. Pugni al petto e in pancia. Poi arrivano i calci: colpi alle ginocchia, agli stinchi e al petto. I ragazzi (avranno sì e no 12-13 anni) vengono fatti sdraiare per terra: il maestro li colpisce allo stomaco e li fa rialzare al grido di Allah akbar, Dio è grande. Benvenuti nel campo di addestramento per baby mujahidin “gestito” dall’Isis.

E’ dima’ al jihad 2, il “sangue del jihad 2”, ennesimo video messo online dalla rete terroristica autoproclamatasi stato nel cuore di Iraq e Siria. Il filmato è stato girato nel governatorato di Ninawa, nel nord ovest dell’Iraq all’esterno di un palazzone abbandonato. E’ qui che vanno in scena gli addestramenti delle nuove reclute del Califfo. E dopo il campo per gli uomini (diffuso nel video dima’ al jihad 1ecco quello per i più giovani, i futuri combattenti al servizio di Al Baghdadi.

I bambini vengono presi a pugni e calci dal loro maestro ma non piangono, qualcuno addirittura sorride. Questi giovani sanno che con questi allenamenti si preparano a diventare eroi o, se saranno fortunati, martiri.

Nel campo di addestramento dell'Isis (You Tube)

Nel campo di addestramento dell’Isis (You Tube)

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Isis, quei campi d’addestramento con armi, equipaggiamento e mujahidin americani

campi addestramento Isis

Cento ragazzi che strisciano nella sabbia tra le pallottole. Cento ragazzi che diventano combattenti. Cento ragazzi pronti a morire per il loro Califfo. Sono gli shabab, le nuove reclute dello Stato Islamico che in fila, vestiti di bianco, frequentano uno dei tanti campi di addestramento nel cuore del Califfato. E’ dima’ al jihad, “sangue del jihad”, l’ultimo video diffuso dallo Stato Islamico che racconta la formazione dei giovani combattenti dell’Isis. Continua a leggere

Vita nel Califfato, tra manichini velati, chiese distrutte, bombe Usa e viaggi di nozze

 

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Miliziani dello Stato Islamico a Raqqa, Siria (Ap)

Teste mozzate, coltellacci insanguinati, bandiere nere e folle di barbuti che imbracciano un fucile gridando al mondo la grandezza di Allah. Sono i mujahidin dell’Isis, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, gruppo terrorista sunnita che nel mondo arabo chiamano Da’ish. Le imprese di questi soldati che con il volto coperto e vestiti di nero promettono morte agli infedeli hanno preso in contropiede il mondo dell’intelligence (americani e sauditi su tutti) rimasto stupito della rapidità del successo militare. Agli occhi degli analisti questo gruppo terrorista sembrava poco più di un insieme di fanatici, come ce ne sono tanti in Medio Oriente. Questo fino alla sera del 29 giugno scorso quando, all’inizio del Ramadan, veniva proclamata la restaurazione del Califfato Islamico, una resurrezione 100 anni dopo la fine del Califfato Ottomano, defunto alla fine della Prima Guerra Mondiale. Ora il Califfato è rinato e alla sua guida c’è Ibrahim Abu Bakr al Baghdadi, l’esperto di studi teologici iracheno che ha guidato i suoi alla conquista del Medio Oriente. Nelle siriane Raqqa, Dei aZ-Zur, e nelle irachene Falluja, Tikrit e soprattutto Mosul (la seconda città dell’Iraq con 2milioni e 800 mila abitanti, poco meno di Roma) oggi sventola la bandiera nera. Una cavalcata trionfale che ha attirato l’attenzione dei governi di tutto il mondo preoccupati per il fascino che questo stato dei “puri” sta avendo sui giovani sparsi in tutto il mondo. Ecco allora l’invio di droni americani: Washington è preoccupata per l’incolumità dei suoi connazionali, per quella dei cristiani d’Oriente e, soprattutto,  per la diffusione di un movimento che ha come obiettivo quello di “far sventolare la bandiera nera sopra la Casa Bianca”. In queste ore aerei senza pilota stanno colpendo postazioni strategiche nello Stato Islamico. Ma i danni non sembrano fermare il gruppo di Al Baghdadi che dopo gli scontri a fuoco contro l’esercito iracheno e curdo lavorano giorno e notte al rafforzamento di uno Stato dove la parola di Allah è legge. Continua a leggere

Neve, Champions e guerra

Neve. Non quella che fa sospendere le partite di Champions, ma quella che ti gela il sangue e ti uccide. Neve che copre le tende dei campi profughi al confine tra Siria e Turchia. Neve che cade silenziosa e si posa sui corpi dei bambini che non hanno da mangiare perché il confine turco, da cui arrivano i rifornimenti, è chiuso da giorni. Neve che cade sulle macchine. Che, anche se il confine è bloccato, passano il valico per vendere a prezzi triplicati il pane e le coperte che ad Aleppo non ci sono più. Neve, calpestata dai piedi gonfi come palle dai piccoli profughi siriani che si riscaldano in compagnia dei pidocchi vicino alle rare stufe a carbone. Neve, bella perchè bianca e silenziosa. Che diventa fango sotto i piedi di bambini circondati da freddo e guerra.

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Due bambini siriani aiutano i genitori nella ricerca di legna da bruciare nel campo profughi di Bab al Salam, al confine tra Siria e Turchia (Afp)

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Tabelline sotto le bombe: a lezione nelle scuole “italiane” di Aleppo

“Sette per uno sette, sette per due quattordici, sette per tre ventuno…”. Gessetto in mano, il maestro scrive in colonna i numeri alla lavagna. I bambini lo ascoltano in silenzio seduti tra i banchi rosa e neri. La lezione di matematica è iniziata da 10 minuti. All’improvviso lo scoppio di una bomba poco lontano. La lezione prosegue. Dopo pochi secondi un’altra esplosione. Gli alunni, tutti tra i 5 e i 12 anni, quasi non ci fanno caso. Nel nord della Siria i bambini sono abituati al sibilo e al frastuono delle bombe lanciate dagli aerei e nulla li distoglie dalla lezione. E’ iniziato così il primo giorno di scuola per 456 bambini di Huraytan, città a 11 chilometri da Aleppo.

Un insegnante con gli alunni in una scuola di Aleppo (Ansa)

Un insegnante con gli alunni in una scuola di Aleppo (Ansa)

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