Sulla strada dissestata che da Byblos porta a Beirut un tweet ci informava della nascita dello Stato Islamico. Era il pomeriggio del 29 giugno di un anno fa. Ero arrivato in Libano due giorni prima e dopo un pomeriggio di mare sulle spiagge di Jounieh un cinguettio mi riportava alla realtà: 140 caratteri in cui sentivo per la prima volta la parola Daesh, acronimio di Dawla Islamiyya fi Iraq wa Sham, Stato Islamico in Iraq e Siria. Non potevo immaginare che da allora quel nome – in tutte le sue varianti: Isil (Islamic State of Iraq and the Levant), IS (Islamic State) o il più diffuso Isis (Islamic State of Iraq and Syria) – avrebbe riempito le orecchie, le menti e i discorsi di tutti.
Jarrah, bambino nato nello Stato Islamico il 23 aprile scorso: accanto a lui il certificato di nascita, una bomba a mano e una pistola (Twitter)
Solo un anno, ma sembra di più. 365 giorni trascorsi dall’inizio di una rivoluzione islamista che ha sconvolto milioni di vite e che ha ridisegnato i confini del cuore del Medio Oriente. Quell’area che una volta apparteneva a due stati diversi – Iraq e Siria – oggi è diventata un unico blocco pulsante.
Allora Beirut era distratta dai Mondiali di calcio ma nei bar e nei locali libanesi si percepiva un misto di timore e curiosità nei confronti di quell’entità nera nata a pochi chilometri dal Paese dei Cedri. Oggi quella nebulosa jihadista si è consolidata. Grazie a internet e alle televisioni l’Isis è entrato nelle case di tutti attraverso le immagini di decapitazioni; attraverso il volto coperto di Jihadi John e di quello terrorizzato del pilota giordano bruciato vivo; attraverso la distruzione di statue e reperti millenari e delle decine di video propagandistici degni di una produzione hollywoodiana. Dietro a quel mix di violenza e propaganda cresceva una nuova entità che si è mantenuta in vita grazie alla vendita di petrolio sul mercato nero, al contrabbandando di reperti archeologici e ai finanziamenti dei ricchi stati del Golfo.
Miliziani dello Stato Islamico con la bandiera del campo di addestramento Sheikh Abu Ibrahim (Twitter)
E così in un solo anno, in quelle terre prima siriane e irachene, la vita è drasticamente cambiata. Perché, al di là della propaganda, oggi lo Stato Islamico è quel posto dove gli uomini si cospargono di colonia per nascondere l’odore del fumo di sigarette, ora rigorosamente vietate. E’ quella galassia di città e villaggi dove le radio sono sintonizzate su “Radio Isis”, perché se ascolti musica (proibita) ti becchi 10 frustate. E’ quello pseudo stato dove i negozi chiudono all’orario di preghiera (5 volte al giorno) e dove le donne sono figure nere che camminano per strada rasenti ai muri, coperte dalla testa ai piedi. Lo Stato Islamico è il posto dove i miliziani in nero hanno trasformato uno stadio di calcio in una prigione e in un centro di interrogatori e dove la piazza centrale di Raqqa (la capitale) è stata soprannominata “Saha Jahim” (Piazza Inferno) perché lì vengono giustiziati i rei, uccisi e lasciati a marcire al sole per giorni, come monito.
La piazza di Raqqa chiamata “Saha Jahim” (Piazza Inferno) teatro delle esecuzioni pubbliche (You Tube)
Per far rispettare le leggi è stata istituita la Hisba, la polizia religiosa. Vigilantes armati con lunghe tuniche in stile afgano che a bordo di Suv pattugliano le strade delle città per scovare (e punire) comportamenti non conformi alla Shari’a, la legge islamica. I poliziotti annusano i vestiti degli uomini (per sentire l’odore di sigarette) e rimproverano le donne considerate impropriamente velate o gli uomini che vestono in abiti occidentali o con acconciature “sconvenienti”.
Chi non rispetta le leggi viene punito. Prigione o frustate. Un numero imprecisato di persone sono state uccise perché ritenute pericolose per lo Stato Islamico o perché considerate troppo poco devote. Qualcuno è stato giustiziato nella pubblica piazza, altri sono spariti nel nulla. Ai famigliari più “fortunati” è stato recapitato un certificato di morte – che però non specifica dove si trovi il corpo del defunto e in quali condizioni – o un dvd contenente il video della decapitazione dello “scomparso”.
Dentro lo Stato Islamico chi è stato etichettato come infedele o “poco devoto” è costretto a portare sempre con se una bitaqa at-tawba, la carta del pentimento: un foglio che certifica il momento in cui di fronte a una corte ci si è pentiti del proprio passato “eretico”.
Chi è stato etichettato come infedele o “poco devoto” è costretto a portare sempre con se una bitaqa at-tawba: un foglio che certifica il pentimento del proprio passato “eretico” (AP)
Le imprese dell’Isis e la chiamata del Califfo a tutti i musulmani hanno attirato dentro i confini dello Stato Islamico uomini, donne, ragazzi e ragazze da tutto il mondo. Tunisini, egiziani, sauditi, giordani, libici. Ma anche musulmani inglesi, francesi, americani, belgi, spagnoli e svedesi. Oltre 16mila foreign fighters da più di 90 paesi (secondo il rapporto annuale del dipartimento di Stato americano) che nel 2014 hanno lasciato le loro famiglie per unirsi alle brigate che lottano per il Califfo Al Baghdadi.
Jarrah è nato il 23 aprile 2015. Una foto diffusa via Twitter lo mostra vicino al suo certificato di nascita con impressa la bandiera nera del Califfato, una pistola e una bomba a mano. I suoi occhi sono ancora chiusi. Quando li aprirà per lui inizierà una vita di indottrinamento. Un’esistenza devota al Califfo e al suo progetto di espansione di uno stato jihadista che molti, un anno fa, credevano destinato a disgregarsi nel giro di un’estate e che invece ora si prepara a festeggiare il suo primo anniversario.
twitter@elia_milani