“Molti medici siriani sono scappati e ora lavorano all’estero”. Il dottor Alì resta un attimo in silenzio. Sullo sfondo le grida dei bambini rendono difficile la conversazione via telefono già disturbata. “Io non ho mai pensato di lasciare la Siria perché qui la gente ha bisogno di me. Non ho paura delle bombe e voglio restare ad aiutare i siriani di ogni religione ed etnia”. Alì Abu al Jud Naser, o semplicemente “dottor Alì”, come lo chiamano i volontari, ha 38 anni ed è il pediatra del campo profughi di Bab al Salam al confine tra Siria e Turchia.
Le tende di questo campo ospitano 16 mila persone, tra cui 8mila bambini (il più piccolo ha compiuto da poco un mese). “Al campo arrivano ogni giorno quasi 100 bambini insieme alle loro famiglie”, racconta il giovane medico. “Facciamo fatica ad aiutarli perché le condizioni sono pessime: l’acqua non è potabile, le medicine scarseggiano e il numero dei piccoli continua ad aumentare. Ce ne sono di ogni età, da un mese a 10 anni”, ripete più volte Alì come a intendere che in Siria, a 11 anni, non è più possibile essere bambini.
Una delle pazienti più piccole di Alì è Rama: ha 8 mesi e un cuore malato. “Ha bisogno di un intervento chirurgico ma la sua famiglia è molto povera”, racconta il pediatra. “In Siria non ci sono ospedali in grado di curarla e la piccola deve essere trasferita al più presto in Turchia come abbiamo fatto con Fatima un’altra bimba che ora sta bene”. Rama e Fatima sono solo due gocce in quell’ondata di profughi-bambini (un milione in tutto) che ha detto addio ai giochi e all’età della speranza per scappare da una guerra civile che, secondo l’Onu, ha causato la morte di 100mila persone.
“E’ una situazione al limite della sopportazione ma per fortuna ci sono organizzazioni che ci aiutano”. Alì si riferisce soprattutto a Time4Life, l’associazione di volontari nata a Modena che ogni 20 giorni organizza viaggi in Siria a proprie spese per portare medicinali e aiuti. Da due mesi il pediatra musulmano è sotto contratto con gli emiliani: mille euro al mese per lavorare 5 giorni a settimana, 8 ore al giorno. Un orario non sufficiente per coprire le esigenze della marea di bambini alle prese con problemi di denutrizione e diarrea.
La giornata di Alì è scandita dalle visite: quando finisce con i pazienti che hanno fatto la coda nel suo ambulatorio, va di tenda in tenda a cercare bambini denutriti. “Per fortuna con me ci sono altri sei medici, 5 uomini e una donna”, racconta. “Lavorano per altre organizzazioni no profit e mi aiutano a dare sollievo ai piccoli profughi”.
Dopo l’attacco degli ultimi giorni il lavoro al campo è aumentato. “Sono arrivati bambini che tremavano e vomitavano. Chiari sintomi di chi ha subito un attacco chimico“, dice. “Un vero crimine da parte del regime”.
E dire che Alì avrebbe la possibilità di scappare dall’inferno siriano. Ma non lo fa. Nemmeno dopo l’intensificarsi degli attacchi nei giorni scorsi. “Vivo vicino al campo con mia moglie e le mie cinque figlie“, racconta fiero. “Nessuno di noi ha paura. Anche se poche settimana fa un missile è caduto a pochi metri da casa nostra distruggendo le macchine parcheggiate”.
@elia_milani