“Una situazione complessa”. Una frase diplomatica usata dal presidente russo Vladimir Putin per dire che in Medio Oriente si rischia una guerra regionale con esiti impossibili da prevedere. Il leader del Cremlino ha ricevuto oggi a Mosca il premier israeliano Netanyahu durante il 73esimo anniversario della Giornata della Vittoria che celebra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la sconfitta del nazismo.
Dopo la parata nella Piazza Rossa Putin ha parlato con il premier israeliano di Siria e Iran, i due fronti caldi che rischiano di far ripiombare il Medio Oriente nel caos. Perché dopo la decisione di Trump di uscire dall’accordo sul nucleare firmato con la Repubblica Islamica nel 2015 la regione ribolle e i conflitti tra nemici storici si acuiscono.
Prova ne è il bombardamento ad al Kiswa, città alla periferia sud di Damasco, avvenuto la sera dell’8 maggio e attribuito dai media arabi ai jet israeliani: secondo la tv siriana sarebbe stato colpito un deposito di missili iraniani causando la morte 15 persone, tra cui 8 iraniani.
Israele, come al solito, non conferma ma le parole del Ministro dell’Intelligence e dei Trasporti Yisrael Katz fanno intendere che dietro all’attacco ci sia Gerusalemme. “L’iran ha minacciato – in pubblico e attraverso messaggi – di colpire Israele”, ha detto il ministro al giornale Yedioth Ahronoth. “Difendiamo i nostri soldati e i civili agendo attraverso l’intelligence con tutte le nostre capacità per localizzare e prevenire (attacchi) in anticipo. Solo i bombardamenti di oggi possono prevenire la violenza e la guerra domani”.
Quello di Kiswa è il terzo attacco preventivo in 10 giorni attribuito allo Stato Ebraico contro obiettivi iraniani in Siria. Una mossa che l’esercito di Gerusalemme giustifica con la necessità di evitare che i Pasdaran iraniani presenti in Siria colpiscano Israele e consolidino le loro posizioni nella terra del grande alleato Bashar al Assad.
Questi ripetuti attacchi per ora non hanno avuto risposta. Nessun missile è stato lanciato dalla Siria ma l’allerta in Israele resta alta. Sulle Alture del Golan l’esercito ha dato l’ordine di tenere aperti i rifugi antimissile (la prima volta in sette anni) e una parte dei riservisti è stata richiamata in previsione di un conflitto.
La situazione rischia di sfuggire di mano dopo la mossa di Trump, caldamente appoggiata da Netanyahu ma malvista da molti esponenti ai vertici militari e criticata dall’ex capo del Mossad Tamir Pardo che sostiene la necessità di un accordo sul nucleare con la Repubblica Islamica.
Il nuclear deal senza gli Stati Uniti, anche se non ufficialmente morto, è appeso a un filo ora che anche in Iran i falchi spingono per lasciare l’accordo. La Repubblica Islamica rischia di vedere la sua economia piegata dalle nuove sanzioni che verranno imposte dagli Stati Uniti. E ora dentro il paese il grido “morte all’America” è più forte che mai. Lo slogan antiamiericano, che si ripete periodicamente dalla Rivoluzione Khomeinista del 1979, è stato urlato anche dentro al parlamento di Teheran dopo il discorso di Trump mentre veniva dato fuoco a una bandiera americana di carta.
I firmatari dell’accordo – Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania – si sono detti preoccupati della decisione di Washington ma sono disposti a lavorare sodo per salvare lo storico accordo raggiunto a fatica nel 2015. La cancelliera Merkel, il presidente Macron e il primo ministro May ripetono da sempre che il nuclear deal iraniano, per quanto migliorabile, resta vitale per impedire l’ottenimento della bomba atomica da parte dell’Iran.
@elia_milani