La macchina svolta a destra, prende una curva e si dirige verso il check point sorvegliato dai soldati israeliani. Alle loro spalle il muro alto nove metri circonda su più lati uno spazio pieno di camion, negozi e venditori ambulanti.
“Questa è la terra di nessuno”, ci racconta Marco, 37enne di Bolzano e project manager di Cesvi, Ong italiana attiva in loco. “La vera entrata del campo di Shuafat si trova laggiù”.
A darci il benvenuto è quella che in gergo tecnico i lavoratori delle Ong chiamano “transfer station”, una piccola discarica a cielo aperto dove finisce tutta la spazzatura del campo.
“La particolarità del campo profughi di Shuafat è che si trova dentro i confini di Gerusalemme, ma è separato dal resto della città dal muro di separazione”, ci spiega Tasneem, giovane palestinese collega del ragazzo trentino.
Il campo profughi è stato fondato dalla Giordania nel 1965 per diminuire il sovraffollamento nella città vecchia di Gerusalemme allora abitata da moltissimi palestinesi, quelli costretti a lasciare le loro case dopo la nascita dello stato di Israele nel 1948. In quegli anni la città vecchia era sotto il controllo del Regno Hashemita: solo nel ’67, durante la guerra dei Sei Giorni, Israele ha preso il controllo di tutta la Cisgiordania e di Gerusalemme Est, compresa l’area di Shuafat. Ecco spiegato perchè qui i nomi delle vie – scritte bianche su sfondo azzurro – sono sia in arabo che in ebraico, cosa impensabile in ogni altro campo profughi palestinese.
“Secondo l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi (Unrwa) nel campo vivono 26mila persone”, racconta Marco. “Secondo i nostri calcoli invece ci sono tra i 13 e i 15mila residenti: tanti palestinesi fanno finta di vivere qui solo per mantenere il documento israeliano che gli permette di muoversi liberamente in tutta Israele… ma in realtà si sono trasferiti altrove”.
Poichè il campo si trova in territorio controllato da Israele (terra occupata secondo la comunità internazionale) i residenti palestinesi possiedono il “blue ID”, il documento di identità che gli consente di muoversi all’interno dello Stato Ebraico senza dover ogni volta chiedere permessi speciali alle autorità israeliane – cosa che invece devono fare tutti i palestinesi che vivono in Cisgordania e Gaza.
“Molte persone nate qui si sono trasferite in altre città della Cisgiordania come Ramallah”, racconta sorridendeo Emad, palestinese nato nel campo e membro di Overseas, la seconda Ong italiana attiva in loco. “Per evitare di essere scoperti dalla polizia questi palestinesi tornano ogni tanto nella loro vecchia casa per riempire il frigo o cambiare i vestiti negli armadi… per far sembrare la loro casa abitata. Se vengono scoperti rischiano che gli venga tolto il documento”.
Libertà di movimento per le persone del campo significa maggiore facilità di trovare lavoro. Per i più grandi ma anche per i più giovani. “Molti ragazzi a 14 o 15 anni abbandonano la scuola per andare in cerca di un impiego nelle vicine città Israeliane”, racconta Tasneem. “Meglio guadagnare qualche shekel piuttosto che frequentare le lezioni in classe”.
Per quanto preoccupante, quello dell’istruzione non è il problema più serio a Shuafat. “Lì dentro c’è la mafia”, mi dice Ibrahim, un palestinese che oggi vive nel sud di Gerusalemme ma che ha ancora i parenti dentro al campo. “Puoi trovare droga ovunque: Shuafat è una specie di supermarket”.
I report dei giornali locali parlano dei più svariati traffici illeciti gestiti da individui che approfittano dell’assenza di ordine.
“Nel campo puoi trovare hashish, marijuana, cocaina ma anche un sacco di armi”, racconta Emad. “Non c’è polizia che controlla: le forze dell’ordine palestinesi non hanno il permesso di operare perchè il campo è formalmente in un’area controllata da Israele. E nemmeno la polizia israeliana è presente. Certo capita che l’esercito effettui arresti o qualche retata… e quando succede è meglio stare alla larga, la situazione diventa pesante”.
Oggi però tutto sembra tranquillo. I bambini chiedono di essere fotografati. I ragazzi più grandi ti guardano con sospetto misto a curiosità. Alcuni dicono “shalom” pensando che io sia israeliano. Ma appena Mohammed, un ragazzo sui 16 anni, scopre che sono di Milano mi chiede sorridendo: “Mi porti con te in Italia?”.
Bambini curiosi sbucano dalle vie che formano i dedali del campo. Le ampie strade di un tempo hanno lasciato il posto a vicoli sempre più stretti. All’inizio si contavano 500 unità abitative, poi la gente ha iniziato a costruire.
“Un tempo le vecchie case erano tutte a un piano”, racconta Emad dirigendosi verso un muro dipinto di viola. “Dietro questa porta c’era il mio appartamento: sette metri per quindici, una misura standard per tutte le case di allora”.
Ora tutto è cambiato, le case sono ‘cresciute’. Il campo, non potendosi espandere in larghezza, si è sviluppato verso l’alto. “Un modo per essere sempre più vicini a Dio”, scherza Emad.
Sui muri delle case tanti graffiti in arabo. Tra i nomi dei calciatori e qualche insulto a Israele anche versi che parlano di jihad, lotta armata e che inneggiano ad Hamas.
In questo mix di emarginazione e rischio estremismo Unrwa e le Ong italiane (Cesvi e Overseas) fanno di tutto per rendere il campo il più vivibile possibile. “Ora stiamo lavorando a un progetto per ottimizzare la gestione dei rifiuti e per sensibilizzare le persone su temi legati all’inquinamento”, spiega Marco. “Un lavoro che punta anche a migliorare le condizioni igieniche dell’area. I risultati non saranno immediati: serve lavoro e pazienza”.
Tanta pazienza perchè spesso molti residenti di Gerusalemme Est usano la “transfer station” del campo per buttare anche i loro rifiuti. “Lo fanno perchè i servizi nei loro quartieri sono scarsi e sanno che qui c’è qualche organizzazione internazionale che se ne occupa”, continua amareggiato il giovane trentino.
In questo modo i problemi si moltiplicano giorno dopo giorno. “Le tubature delle fogne del campo vengono controllate dall’Onu ma molte case sono state costruite oltre i limiti consentiti dove le Nazioni Unite non hanno il diritto ad operare: lì la situazione è disastrosa”, dice rassegnata Tasneem.
La scorsa primavera le forti piogge e la mancanza di un sistema fognario adeguato hanno fatto crollare una parte del muro di separazione. “Per Israele la sicurezza è la priorità”, conclude Marco. “Il muro crollato è stato ricostruito in poche ore”.
twitter@elia_milani