Haim Tomer, ex Mossad: “I leader di molti paesi arabi vogliono che Israele elimini Hamas”

Haim Tomer è stato per nove anni un agente del Mossad, i servizi segreti israeliani che operano all’estero. Dal 2007 al 2011 è stato direttore della sezione intelligence dell’ “Istituto” (questo il significato della parola Mossad in ebraico). Dal 2011 al 2014 è stato a capo delle missioni all’estero. 

Haim Tomer, ex agente del Mossad

Mr Tomer, dopo la fine della tregua tra Israele e Hamas c’è la possibilità di arrivare a un nuovo cessate il fuoco?

Non credo. Penso che il governo israeliano non sia più interessato ad un accordo con Hamas. Ora si va verso violenti combattimenti nel sud di Gaza dove si trova la leadership del movimento islamista. Il piano è colpire duramente i capi o costringerli a lasciare la Striscia, una situazione simile a quella del 1982 a Beirut quando Arafat andò via dal Libano.

In questa fase Israele potrebbe essere pronto a sacrificare gli oltre 130 ostaggi che sono ancora nella Striscia?

Si potrebbe pensare che combattere mentre gli ostaggi sono ancora nelle mani di Hamas dentro Gaza aumenti il rischio di non vederli più tornare a casa vivi. Io credo invece che se i combattimenti continuano, per altre due o tre settimane, Hamas sarà messo alle strette e sarà più propenso a rilasciare tutti gli ostaggi. E non penso che gli ostaggi saranno uccisi perché rappresentano l’unica e ultima risorsa nelle mani dei terroristi.

C’è il rischio che la guerra in corso, con le morti di tanti civili, metta a repentaglio le relazioni che Israele ha costruito con i paesi arabi? 

Non sono più nel Mossad da otto, nove anni. Ma ho molti amici nel mondo arabo. E posso dirvi che tutti i miei contatti nei paesi del Golfo e in Giordania, mi dicono: “Finiteli, finitili”. Ai loro occhi Hamas è come l’Isis, come Al-Qaida. Hamas non solo minaccia Israele, ma minaccia anche la Giordania. E minaccia potenzialmente i Sauditi perchè è alleato degli Houthi. E tutti sanno che Hamas è finanziato e addestrato dall’Iran. Certo ci sono manifestazioni anti Israele nelle strade del Medio Oriente ma non credo che ci sia alcun rischio di mettere seriamente a repentaglio le relazioni che lo Stato Ebraico ha stretto negli ultimi anni con i partner arabi.   

Il New York Times ha parlato di “Jericho Wall”, un documento di 40 pagine, ignorato dai servizi di intelligence israeliani in cui veniva descritto nei dettagli un attacco di Hamas su larga scala come quello che è stato lanciato il 7 Ottobre scorso. E’ solo l’ultimo dei report che mostrano come molte informazioni siano state sottovalutate dalle autorità. Come è stato possibile?

Credo che i motivi siano due. Il primo è il fatto che la leadership dello Shin Bet (i servizi segreti interni) e dell’esercito, che sono responsabili di quello che succede a Gaza, hanno stabilito una strategia secondo la quale Hamas non avrebbe mai lanciato un attacco su larga scala contro Israele, al massimo un lancio di razzi contro le città del sud o l’attacco a una singola postazione militare, non di più. E’ stato un errore. Se pensi in questo modo non sei molto disposto ad ascoltare le segnalazioni di allarme che arrivano dai tuoi subordinati. 

Il secondo punto riguarda il primo ministro. Il premier ha ricevuto molte indicazioni dall’intelligence secondo cui la spaccatura della società in Israele – legata alla riforma giudiziaria promossa da Netanyahu – avrebbe portato Hamas e Hezbollah a tentare di agire contro lo Stato Ebraico. Una lettera è stata inviata personalmente al premier dal capo dell’unità di intelligence dell’esercito. Se sei il premier di un paese che ogni due, tre anni combatte con Hamas, una lettera del genere non puoi ignorarla. Se sei il premier mi aspetto che ti chieda: “due soli battaglioni sono sufficienti ad operare lungo tutto il confine con Gaza e Egitto?”. Ricordo che quando il Ministro della Difesa Gallant ha segnalato nei mesi scorsi un rischio serio e imminente per la sicurezza di Israele la risposta è stata il suo licenziamento.

 

Haim Tomer è stato a capo della sezione intelligence del Mossad dal 2007 al 2012 e poi a capo della sezione operazioni estere fino al 2014.

Israele andrà avanti fino a quando raggiungerà i suoi obiettivi (la sconfitta di Hamas e la liberazione degli ostaggi) o si fermerà prima?

Dipende da diversi fattori. C’è il fattore meteo. Ci stiamo avvicinando all’inverno e manovrare truppe dentro Gaza nella stagione fredda non è semplice. Anche la visibilità dell’aviazione è minore rispetto all’estate. C’è poi il fattore americano. A inizio gennaio partirà la vera campagna elettorale di Biden. E non penso che il presidente degli Stati Uniti voglia che questa guerra continui a lungo: parte del Partito Democratico è contraria ai duri combattimenti, anche se contro Hamas. Poi c’è Hezbollah. Ci sono scontri quotidiani al confine tra Israele e Libano ma al momento si tratta di una guerra di attrito. Hezbollah non sta usando tutte le sue forze, ma tiene impegnate al nord le nostre truppe che così non possono schierarsi a supporto di quelle a sud. Nel 2006 tre soldati israeliani sono stati sequestrati e hanno dato il via a una guerra durata di 33 giorni. Quello fu un errore, ha ammesso Nasrallah, il leader del Partito di Dio, vista la violenta reazione di Israele. E credo che Nasrallah sia sul punto di commettere un altro errore. Infine c’è la comunità internazionale: sta criticando Israele, ma non ha ancora adottato misure concrete. Cosa che presto potrebbe cambiare.

Quale sarà l’impatto sulla guerra a Gaza se venissero uccisi i suoi leader Yahya Sinwar e Mohammed Deif?

Significherebbe la distruzione della leadership di Hamas. Questo spingerebbe i restanti membri del gruppo a chiedere una sorta di accordo in cui si dichiarano pronti a smilitarizzare l’organizzazione, cosa che non credo avverrà mai sotto la guida di Sinwar e Deif. Ma forse, dopo l’uccisione di Mohammed Deif, Sinwar e altri leader, nei ranghi inferiori capiranno che devono accettare un nuovo tipo di accordo che prevede il disarmo delle loro capacità di offesa: niente più razzi e niente più missili.

Il premier Netanyahu ha detto che saranno colpiti i leader di Hamas ovunque nel mondo: significa che prima o poi saranno uccisi anche i capi che vivono all’estero come Khaled Meshal e Ismail Haniye?

Sì, credo che questo avverrà. Ognuno di loro sopra la sua testa ha una condanna a morte per aver ucciso 1200 israeliani. Quando avremo la possibilità di colpirli lo faremo. Non sarà facile perchè sono consapevoli che Israele li sta cercando e si stanno preparando. Ma credo che saremo in grado di trovarli tutti. Prima o poi saremo in grado di mettere le nostre mani su di loro, perché sono degli assassini.

C’è il rischio che i palestinesi vengano spinti in Egitto?

La possibilità che ciò avvenga è molto bassa. Sarebbe possibile solo nel quadro di una vasta iniziativa internazionale, europea, statunitense e panaraba che permetterebbe alle persone di lasciare Gaza per vivere in un campo profughi temporaneo in una zona chiusa, nella parte egiziana vicino al confine con Gaza. Non ci sono molte possibilità anche perché gli egiziani conoscono i palestinesi e per molti, molti anni hanno rifiutato di permettere a un gran numero di loro di accamparsi in Egitto.

Gas, sharia e diplomazia: la ricetta del Qatar, il piccolo gigante mediorientale

Ahlan bikum fi Qatar. Benvenuti in Qatar, un paese grande meno della metà del Piemonte, senza una tradizione calcistica alle spalle ma con tantissimo gas naturale e preziose alleanze internazionali. La piccola monarchia del Golfo, indipendente dal 1971, non ha mai partecipato a un Mondiale ma, battendo il record della Svizzera (host del torneo nel 1954), sarà il più piccolo paese ad aver mai ospitato la competizione.
 
L’Emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani

Sulle spalle degli stranieri – In Qatar vivono poco meno di 3 milioni di persone, ma solo 350mila hanno nazionalità e passaporto qatariota. Tutti gli altri (l’88% della popolazione) sono lavoratori stranieri, provenienti soprattutto da India, Pakistan, Bangladesh e Nepal. Sono loro ad aver reso possibile il sogno degli sceicchi, costruendo stadi dotati di aria condizionata, un nuovo aeroporto, una nuova rete di trasporti, 100 nuovi hotel e la città attorno al Lusail Stadium dove si giocherà la finale. Una massa di operai sottopagati (il salario medio è circa 300 dollari al mese) che vivono in compound-dormitori fuori dal centro città lavorando in condizioni che Amnesty International ha paragonato ai lavori forzati. Fino al 2020 era in vigore la kafala, un sistema che permetteva ai datori di lavoro di sequestrare i passaporti degli operai per evitare che lasciassero il paese o cambiassero mestiere. Secondo il Guardian, il più autorevole quotidiano inglese, oltre 6.750 operai originari di India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka sono morti dal 2010 (anno dell’assegnazione del Mondiale) al 2020: in media dodici decessi alla settimana. Il governo di Doha parla di numeri gonfiati, conferma “solo” trentasette morti nei cantieri e ricorda la recente abolizione della kafala, l’introduzione del salario minimo mensile e un sistema di risarcimento per le famiglie dei lavoratori. Troppo poco per molti tifosi che hanno già annunciato il boicottaggio della prima Coppa del Mondo mediorientale. Sotto accusa non solo il mancato rispetto dei diritti dei lavoratori stranieri ma anche le limitazioni alla libertà di espressione e il divieto delle relazioni omosessuali punite fino a sette anni di carcere. Nel paese musulmano dove “la sharia è la principale fonte del legislatore” (così recita il primo articolo della Costituzione qatariota), è proibita anche la vendita di alcool: i tifosi – ne sono attesi un milione e duecentomila – potranno bere alcolici solo in bar con speciale licenza o negli hotel internazionali, mai in pubblico.

Lavoratori in un cantiere di Doha, Qatar

 

Gas e diplomazia – Il Qatar è il terzo paese al mondo per riserve di gas naturale dietro a Russia e Iran. Ricco anche di petrolio, ha deciso di differenziare la propria economia per non essere dipendente dagli idrocarburi: con il Qatar Investment Authority – il decimo fondo sovrano più grande al mondo – ha da tempo iniziato a investire in finanza, arte, innovazione, marchi di lusso e calcio (è proprietario del Psg di Messi, Neymar e Mbappé). Questi investimenti hanno permesso di ampliare e consolidare la fitta rete di alleanze internazionali che seppur ambigue e a prima vista contradditorie, hanno reso la monarchia dell’Emiro Tamim bin Hamad Al Thani un piccolo gigante della diplomazia. Il Qatar ha infatti rapporti di buon vicinato (non privi di tensione) sia con l’Arabia Saudita sunnita, sia con l’Iran sciita (con cui condivide un giacimento di gas sottomarino). E’ alleato degli Usa (ospita circa 10mila soldati statunitensi nella base aerea di Al Udeid), ma è anche in buone relazioni con Russia, Cina e i talebani che dal 2013 hanno aperto a Doha l’unico ufficio di rappresentanza fuori dall’Afghanistan. Finanziatore dei Fratelli Musulmani, ha stretti legami con Hamas, movimento islamista palestinese che ha tra i suoi obiettivi la distruzione di Israele. Nonostante non abbia rapporti diplomatici con lo Stato Ebraico, la monarchia del Golfo ha ospitato per anni un ufficio commerciale di Gerusalemme e ora permetterà per la prima volta ai cittadini israeliani di entrare nel paese per assistere alla Coppa del Mondo.

Centro di estrazione del gas ad Al Khor, Qatar

Critiche e influncer – Il Qatar ha sempre respinto le accuse di aver corrotto i vertici della FIFA per garantirsi l’assegnazione del Mondiale. Ma questo non ha fermato le dure critiche (in aumento con l’avvicinarsi della partita inaugurale) da parte di organizzazioni per i diritti umani, giornali, tv e personaggi pubblici di mezzo mondo. Prese di posizione che hanno infastidito l’Emiro Al Thani (non abituato al dissenso) che ha parlato di “campagna diffamatoria senza precedenti” contro un paese organizzatore. Ma ormai manca poco al fischio d’inizio. E l’Emiro vuole che tutto sia perfetto. Mentre Al Jazeera, emittente nata a Doha nel 1996, continua a promuovere nei suoi canali in arabo e in inglese le meraviglie della prima Coppa del Mondo in Medio Oriente, il governo qatariota ha invitato a sue spese oltre 1500 tifosi, provenienti dai 32 paesi che partecipano al torneo. Tra loro molti influencer che dovranno promuovere il Mondiale sui social network: richiesti solo contenuti “positivi”, da evitare qualunque forma di critica.

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Yuval Noah Harari e il mondo dopo il Coronavirus

Guai a chiamarlo profeta. (“Non credo nei veggenti, né tantomeno nei profeti: nessuno è in grado di prevedere il futuro”). Eppure Yuval Noah Harari, professore di storia alla Hebrew University di Gerusalemme, è considerato una mente così brillante da essere in grado di analizzare (e forse anticipare) le sfide delle società del futuro.

Lo storico e scrittore israeliano Yuval Noah Harari a Seoul nel 2016 (EPA/YONHAP SOUTH KOREA OUT)

“Non ho mai fatto così tante interviste come in questo periodo”, ha confessato l’autore di Sapiens, Homo deus e 21 lezioni per il XXI secolo, best seller da 25 milioni di copie che trattano l’evoluzione della nostra specie e il possibile futuro dell’umanità. Ma in poche settimane il Coronavirus ha cambiato la vita di miliardi di persone e Harari è sembrato un punto di riferimento per capire come le selte di oggi nella lotta al virus potrebbero influenzare la nostra vita di domani.

“In momenti come questo si dice che la storia sta accelerando”, ci dice via Zoom dal salotto di casa sua, in un moshav a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv. “Questo significa che oggi le persone sono disposte a fare molto velocemente cose che in tempi normali non avrebbero mai fatto o che avrebbero richiesto anni di consultazioni e discussioni. Nella mia Università abbiamo discusso per anni la possibilità di tenere alcuni corsi esclusivamente online e non lo abbiamo mai fatto: con questa crisi, in una settimana, abbiamo spostato tutti i corsi in Rete e sono sicuro che molti di questi rimarranno online anche al termine della crisi. Lo stesso vale per il mercato del lavoro: si è parlato a lungo di house working, ma solo questa crisi ha costretto moltissime società a metterlo in pratica”.

GUARDA L’INTERVISTA VIDEO A YUVAL NOAH HARARI

Intelligenza artificiale, machine learning e robot sono temi centrali nei libri di Harari che ora tornano più cha mai al centro del dibattito mondiale. “La crisi sta accelerando il processo di automazione”, continua lo storico. “Nelle case di riposo e negli ospedali non c’è sufficiente forza lavoro e c’è il rischio che il personale si infetti. Già oggi robot e computer vengono impiegati in corsia e quando la crisi sarà finita è molto probabile che quelle macchine non verranno spente, ma sostituiranno il personale in carne e ossa”.

Nella battaglia globale per fermare il Covid-19 si inizia a parlare di applicazioni per monitorare gli spostamenti dei contagiati e di veri e propri strumenti di tracciamento. Un tema noto in Israele (paese dove Harari vive) che su ordine della Knesset (il parlamento israeliano) ha autorizzato lo Shin Bet, i servizi segreti interni, a tracciare i cellulari delle persone contagiate usando gli stessi software impiegati nella lotta al terrorismo.

Yuval Noah Harari durante l’intervista realizzata via Zoom

“Non sono contro l’uso delle nuove tecnologie di sorveglianza in questa crisi, ne abbiamo bisogno, ma si deve agire con attenzione e responsabilità”, ammonisce Harari. “Quando si mette in piedi un sistema di sorveglianza di massa è necessario sapere che una volta introdotto è molto difficile da smantellare. Ci saranno sempre argomenti sul perché dovremmo continuare a mantenere attivi quei controlli anche quando il numero di contagiati da covid sarà zero. Ci sarà sempre qualcuno che vorrà mantenere in vita quel sistema in vista di una seconda ondata, di una terza o di una nuova pandemia di influenza, o per l’arrivo dell’Ebola. La storia ci insegna che, una volta introdotte, certe misure di emergenza non vengono mai abolite: lo abbiamo visto negli Stati Uniti dopo l’11 settembre con il Patriot Act“.

In queste settimane il futuro sembra più nero che mai, eppure per Harari questa crisi rappresenta un’opportunità. “La pandemia da Covid-19 può darci una lezione: ascoltare con più attenzione quello che ci dicono gli scienziati. Questa crisi sanitaria non era un evento impossibile da prevedere, la possibilità di una pandemia era sul tavolo e se ne è parlato e scritto in molte ricerche. Negli ultimi anni ci sono state tante teorie cospirazioniste, fake news e un atteggiamento anti scientifico che ha invitato la gente a non ascoltare gli scienziati. In queste settimane ‘scientifico’ è tornato ad essere sinonimo di ‘affidabile’. In Israele hanno chiuso le sinagoghe, in Iran hanno chiuso le moschee, il Papa ha detto alle persone di stare lontani dalle chiese in seguito alle raccomandazioni degli scienziati. Spero che continueremo ad ascoltare i consigli della scienza anche al termine di questa crisi, quando si parlerà di cambiamento climatico: allora dovremo ascoltare gli scienziati con la stessa attenzione, perché potenzialmente il cambiamento climatico sarà molto più devastante del Covid-19″.

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“Mucche kamikaze”, la nuova strategia dell’Isis (in crisi) in Iraq

Due mucche camminano verso il villaggio di Al Islah, in Iraq. Una cosa normale se non fosse per il fatto che su quei bovini sono stati posizionati giubbotti esplosivi.
Una volta raggiunto il piccolo centro abitato gli ordigni sono stati fatti detonare a distanza dai miliziani dell’Isis: il bilancio è di due bovini morti, danni alle case vicine ma nessuna persona ferita.

Una mucca pronta per essere sacrificata nel giorno di Eid al-Adha, la festa del sacrificio, alla periferia di Kabul, Afghanistan  (EPA/JAWAD JALALI)

La storia, riportata dal New York Times e raccontata dal Colonnello Ghalib Al Atyia (portavoce del comando di polizia della provincia di Diyala) più che l’inizio di una nuova strategia da parte del terrorismo islamista sembra essere il segno della sua crisi.

Dopo una guerra di quattro anni i miliziani jihadisti hanno perso terreno, risorse e uomini: non possono più permettersi di perdere soldati o simpatizzanti della causa jihadista in operazioni con cinture esplosive. Da lì la decisione di optare per il “bovino shahid”, una sorta di “mucca martire”. Una scelta dispendiosa visto che in Iraq una mucca (da cui si ricava latte e carne) può costare oltre milleduecento dollari.

All’Isis però le mucche non sembrano mancare. La consegna dei bovini allo Stato Islamico è sempre stato un modo per mostrare fedeltà al Califfato da parte degli allevatori.

Non è la prima volta che gli animali vengono impiegati per compiere atti terroristici. Nel 2005 la polizia irachena ha segnalato casi di esplosivi posizionati sui cani (animali tradizionalmente poco amati nel mondo arabo). E in Afghanistan più volte è stato segnalato l’impiego di “asini-bomba” per colpire obiettivi NATO. 

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“In ricordo di Davide”: a Betlemme inaugurato un campo dedicato ad Astori

Un nome e cognome scritti in grandi caratteri neri su un muro dove picchia forte il sole mentre i bambini giocano a calcio divertiti. E’ la dedica a Davide Astori, il capitano della Fiorentina scomparso prematuramente oltre un anno fa. Il suo ricordo ha ispirato un progetto che ha portato all’inaugurazione di un nuovissimo campo di calcio in erba sintetica nel cuore di Betlemme, città palestinese poco lontano dalla Chiesa della Natività dove secondo la tradizione cristiana più di duemila anni fa è nato Gesù.

Federico Chiesa gioca con i bambini di Betlemme nel giorno dell’inaugurazione del campo dedicato a Davide Astori (foto Elia Milani)

Il progetto, ideato da Assist for Peace, è stato realizzato grazie al finanziamento di Cagliari e Fiorentina, le due squadre dove Astori ha militato più a lungo. Alla cerimonia di inaugurazione tanti giocatori e dirigenti delle due squadre di Serie A che hanno ricordato un compagno di squadra e un amico che ora non c’è più. Tra loro anche i due giocatori della Nazionale Federico Chiesa e Niccolò Barella che con il sorriso hanno giocato insieme ai bambini e ai ragazzi della città.
 

GUARDA IL VIDEO DEL CAMPO DI ASTORI A BETLEMME

 

“Era la volontà di Davide creare questo campetto di calcio”, ci racconta cercando di trattenere le lacrime Renato, il papà di Astori mentre Anna, la mamma, non riesce quasi a parlare tanta è l’emozione.
“Davide avrebbe voluto essere qui a giocare con questi bambini che hanno un gran bisogno di pace”, dicono i fratelli Marco e Bruno.

Prima dell’inizio dei lavori a fine marzo, quello che è ora un moderno impianto sportivo, era un ammasso di erbacce e pietre. 

Samir e Butrus, due ragazzi cristiani di Betlemme, giocano a calcio nel campo di Betlemme prima del restauro

“Eravamo costretti a giocare schivando i sassi e le porte arrugginite ribaltate a terra”, raccontano Samir e Butrus, due ragazzini cristiani di Betlemme. “Da oggi invece possiamo divertirci su un vero campo da calcio”.

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La cupola d’oro e la moschea remota, viaggio nel terzo luogo più sacro per i musulmani

E’ forse l’edificio più simbolico di tutta Gerusalemme. È la cupola dorata che ogni giorno, riflette il sole che illumina la Città Santa. Gli arabi la chiamano Qubbat as Sahra, la cupola della roccia, simbolo della Gerusalemme musulmana che domina uno dei luoghi più contesi della terra.

Cupola della Roccia, Gerusalemme (foto Elia Milani)

La cupola è parte della Moschea di Al Aqsa, il cuore di quello che i musulmani chiamano Al Haram al Sharif, la Spianata delle Moschee, considerato dai fedeli il terzo luogo più importante del mondo dopo la Mecca e Medina, in Arabia Saudita.

“Una preghiera alla Moschea di Al Aqsa vale come 500 preghiere dette nelle altre moschee di Gerusalemme”, ci racconta Mustafa Abu Sway, imam di Al Aqsa e membro del Waqf, la fondazione giordana che amministra i luoghi santi di Gerusalemme.

Mustafa è un esperto dell’imam Al Ghazali, teologo e filosofo persiano del XI secolo, figura chiave nella storia del pensiero islamico. Camminando insieme a lui sotto la cupola dorata ammiriamo la perfezione architettonica dell’edificio dove sono continui i richiami allo scorrere del tempo: le 52 finestre rappresentano le settimane dell’anno; i 24 archi, le ore del giorno; le 12 colonne, i mesi, e i 4 pilastri di sostegno, le stagioni.

“Nelle decorazioni dentro la Cupola della Roccia compaiono moltissimi versetti del Corano che non rendono omaggio solo a Maometto ma a tutti i 25 profeti riconosciuti dall’Islam: tra loro anche Abramo, Mosè e Gesù”, ci spiega Mustafa.

Mustafa Abu Sway, imam alla Moschea di Al Aqsa e membro del Waqf, la fondazione giordana che amministra i luoghi santi di Gerusalemme (foto Elia Milani)

Questo luogo è considerato sacro anche dagli ebrei che lo chiamano Monte del Tempio: secondo la tradizione ebraica qui si trova la pietra della fondazione a partire dalla quale Dio ha creato il mondo; qui Abramo ha tentato di sacrificare il figlio Isacco e qui è stato costruito il Tempio di Salomone che ospitava l’Arca dell’alleanza al cui interno c’erano le tavole dei dieci comandamenti.

Nel VII secolo durante la grande espansione dell’Islam dopo la morte di Maometto le truppe musulmane conquistarono Gerusalemme, allora città cristiana. Si racconta che il Sultano Abd Al Malik, arrivato nella Città Santa, vedendo la bellezza della cupola del Santo Sepolcro fu colto dal timore che potesse abbagliare le menti dei musulmani spingendoli sulla via del cristianesimo: nel 691 decise di costruire un edificio meraviglioso in modo da rendere visibile a tutti la presenza dell’Islam in città.

Dettaglio del minbar, il pulpito della moschea di Al Aqsa, portato dal Saldino da Aleppo a Gerusalemme nel 1187 (foto Elia Milani)

Per i musulmani ogni singolo metro della Spianata è considerato sacro: la diciasettesima Sura del Corano racconta di un lungo viaggio notturno compiuto da Maometto a bordo di Buraq, un cavallo alato con la testa di donna che ha trasportato il profeta “dalla Moschea Santa alla Moschea Remota”, luoghi identificati in seguito rispettivamente con la Kabaa della Mecca e la Spianata di Gerusalemme.

Normalmente solo i fedeli musulmani possono entrare nella Cupola della Roccia e dentro la Moschea di Al Aqsa, ma con un permesso rilasciato dal Waqf siamo riusciti a visitare questi luoghi unici, come potete vedere nella puntata della rubrica di Tgcom24 “A Gerusaelmme liberata” dedicata alla Spianata delle Moschee.

CLICCA E GUARDA LA PUNTATA SULLA CUPOLA DELLA ROCCIA

 

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Storia e segreti del Muro del Pianto

In ebraico viene chiamato Kotel, in inglese è Western Wall, muro occidentale, in italiano è semplicemente Muro del Pianto. Parole diverse per indicare lo stesso luogo, il più sacro per gli ebrei di tutto il mondo. 

Il Muro del Pianto e la Cupola della Roccia, Gerusalemme (foto Elia Milani)

Ogni anno centinaia di migliaia di turisti e fedeli in visita a Gerusalemme vengono fino a qui. La maggior parte di loro si ferma nella Western Wall Plaza, la piazza di fronte al Muro.

La storia e le guerre hanno modificato la geografia di questo luogo. Del muro occidentale costruito da Re Erode, lungo 488 metri, è oggi visibile dall’esterno solo una parte lunga 57 metri: per vedere la parte nascosta bisogna addentrarsi nei tunnel che oggi si trovano sotto il quartiere musulmano e che sono stati costruiti in epoche lontane.

Uno dei tunnel del Muro del Pianto che si trova sotto il quartiere musulmano della Città Vecchia di Gerusalemme (foto Elia Milani)

Nel nostro viaggio, andato in onda nella rubrica di Tgcom24 “A Gerusaelmme liberata”, non solo abbiamo percorso gli stretti tunnel sotterranei ma abbiamo anche incontrato gli ebrei ultraortodossi che gestiscono l’area di preghiera e le “Women of the Wall”, le donne del Muro, che da anni lottano per avere gli stessi diritti degli uomini nella zona sacra.

CLICCA E GUARDA LA PUNTATA SUL MURO DEL PIANTO

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Viaggio nei quattro quartieri della Città Vecchia di Gerusalemme

Un chilometro quadrato denso di storia. Uno spazio circondato da mura costruite nel XVI secolo dal Sultano Ottomano Solimano il Magnifico che ancora oggi racchiudono i luoghi più sacri per cristiani, musulmani ed ebrei. E’ la città vecchia di Gerusalemme, il cuore di tutta la Terra Santa.

Vista sulla città vecchia di Gerusalemme dalla Torre di Davide (foto Elia Milani)

Attraversata da strette vie in cui è facile perdersi, la città vecchia è un mondo diviso in quattro, tanti quanti sono i quartieri che la compognono: il quartiere cristiano ruota attorno al Santo Sepolcro; quello musulmano si trova a pochi metri dalla Cupola della Roccia; quello ebraico è a pochi passi dal Muro del Pianto mentre il quartiere armeno è costruito attorno alla Cattedrale di San Giacomo.

La mappa della città vecchi adi Gerusalemme (foto Elia Milani)

Fra Jad, frate francescano della Custodia di Terra Santa, mi ha accompagnato per i vicoli del quartiere cristiano dove è nato e cresciuto. Khaled e Abu Samir mi hanno mostrato l’arte della produzione di dolci e dei prodotti di madre perla venduti nel quartiere musulmano, il più grande di tutta la città. Shoshi, ebrea americana, mi ha portato nei vicoli nascosti del quartiere ebraico, mentre George è stato il “Cicerone” nei poco conosciuti cortili del quartiere armeno, chiusi ai turisti. Sono loro i protagonisti del reportage che ho preparato per “A Gerusalemme Liberata” la rubrica di Tgcom24.

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Muri, droga e spazzatura: viaggio a Shuafat, l’unico campo profughi dentro Gerusalemme

La macchina svolta a destra, prende una curva e si dirige verso il check point sorvegliato dai soldati israeliani. Alle loro spalle il muro alto nove metri circonda su più lati uno spazio pieno di camion, negozi e venditori ambulanti.

“Questa è la terra di nessuno”, ci racconta Marco, 37enne di Bolzano e project manager di Cesvi, Ong italiana attiva in loco. “La vera entrata del campo di Shuafat si trova laggiù”.

A darci il benvenuto è quella che in gergo tecnico i lavoratori delle Ong chiamano “transfer station”, una piccola discarica a cielo aperto dove finisce tutta la spazzatura del campo.

L’ingresso del campo profughi di Shuafat (foto Elia Milani)

“La particolarità del campo profughi di Shuafat è che si trova dentro i confini di Gerusalemme, ma è separato dal resto della città dal muro di separazione”, ci spiega Tasneem, giovane palestinese collega del ragazzo trentino.

Marco e Tasneem della Ong italiana Cesvi mostrano la mappa del campo profughi di Shuafat (foto Elia Milani)

Il campo profughi è stato fondato dalla Giordania nel 1965 per diminuire il sovraffollamento nella città vecchia di Gerusalemme allora abitata da moltissimi palestinesi, quelli costretti a lasciare le loro case dopo la nascita dello stato di Israele nel 1948. In quegli anni la città vecchia era sotto il controllo del Regno Hashemita: solo nel ’67, durante la guerra dei Sei Giorni, Israele ha preso il controllo di tutta la Cisgiordania e di Gerusalemme Est, compresa l’area di Shuafat. Ecco spiegato perchè qui i nomi delle vie – scritte bianche su sfondo azzurro – sono sia in arabo che in ebraico, cosa impensabile in ogni altro campo profughi palestinese.

Via della Awqaf n°4, campo profughi di Shuafat – Sopra la scritta in arabo, sotto quella in ebraico (foto Elia Milani)

“Secondo l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi (Unrwa) nel campo vivono 26mila persone”, racconta Marco. “Secondo i nostri calcoli invece ci sono tra i 13 e i 15mila residenti: tanti palestinesi fanno finta di vivere qui solo per mantenere il documento israeliano che gli permette di muoversi liberamente in tutta Israele… ma in realtà si sono trasferiti altrove”.

Poichè il campo si trova in territorio controllato da Israele (terra occupata secondo la comunità internazionale) i residenti palestinesi possiedono il “blue ID”, il documento di identità che gli consente di muoversi all’interno dello Stato Ebraico senza dover ogni volta chiedere permessi speciali alle autorità israeliane – cosa che invece devono fare tutti i palestinesi che vivono in Cisgordania e Gaza.

Le case del campo profughi di Shuafat (foto Elia Milani)

“Molte persone nate qui si sono trasferite in altre città della Cisgiordania come Ramallah”, racconta sorridendeo Emad, palestinese nato nel campo e membro di Overseas, la seconda Ong italiana attiva in loco. “Per evitare di essere scoperti dalla polizia questi palestinesi tornano ogni tanto nella loro vecchia casa per riempire il frigo o cambiare i vestiti negli armadi… per far sembrare la loro casa abitata. Se vengono scoperti rischiano che gli venga tolto il documento”.

Emad, dipendente della Ong italiana Overseas, nell’ufficio dentro al campo profughi di Shuafat (foto Elia Milani)

Libertà di movimento per le persone del campo significa maggiore facilità di trovare lavoro. Per i più grandi ma anche per i più giovani. “Molti ragazzi a 14 o 15 anni abbandonano la scuola per andare in cerca di un impiego nelle vicine città Israeliane”, racconta Tasneem. “Meglio guadagnare qualche shekel piuttosto che frequentare le lezioni in classe”.

Giovani studentesse appena uscite dalla scuola dentro il campo di Shuafat (foto Elia Milani)

Per quanto preoccupante, quello dell’istruzione non è il problema più serio a Shuafat. “Lì dentro c’è la mafia”, mi dice Ibrahim, un palestinese che oggi vive nel sud di Gerusalemme ma che ha ancora i parenti dentro al campo. “Puoi trovare droga ovunque: Shuafat è una specie di supermarket”.

I report dei giornali locali parlano dei più svariati traffici illeciti gestiti da individui che approfittano dell’assenza di ordine.

“Nel campo puoi trovare hashish, marijuana, cocaina ma anche un sacco di armi”, racconta Emad. “Non c’è polizia che controlla: le forze dell’ordine palestinesi non hanno il permesso di operare perchè il campo è formalmente in un’area controllata da Israele. E nemmeno la polizia israeliana è presente. Certo capita che l’esercito effettui arresti o qualche retata… e quando succede è meglio stare alla larga, la situazione diventa pesante”.

Scritte in arabo dentro il campo di Shuafat che inneggiano ad Hamas. Sul muro è scritto: “Il nostro Islam è alla base della nostra jihad, le nostre armi sono il piombo della nostra organizzazione. Hamas è la nostra base. Allahu akbar” (foto Elia Milani)

Oggi però tutto sembra tranquillo. I bambini chiedono di essere fotografati. I ragazzi più grandi ti guardano con sospetto misto a curiosità. Alcuni dicono “shalom” pensando che io sia israeliano. Ma appena Mohammed, un ragazzo sui 16 anni, scopre che sono di Milano mi chiede sorridendo: “Mi porti con te in Italia?”.

Bambini curiosi sbucano dalle vie che formano i dedali del campo. Le ampie strade di un tempo hanno lasciato il posto a vicoli sempre più stretti. All’inizio si contavano 500 unità abitative, poi la gente ha iniziato a costruire.

“Un tempo le vecchie case erano tutte a un piano”, racconta Emad dirigendosi verso un muro dipinto di viola. “Dietro questa porta c’era il mio appartamento: sette metri per quindici, una misura standard per tutte le case di allora”. 

Ora tutto è cambiato, le case sono ‘cresciute’. Il campo, non potendosi espandere in larghezza, si è sviluppato verso l’alto. “Un modo per essere sempre più vicini a Dio”, scherza Emad.

Sui muri delle case tanti graffiti in arabo. Tra i nomi dei calciatori e qualche insulto a Israele anche versi che parlano di jihad, lotta armata e che inneggiano ad Hamas. 

Cavi elettrici si intrecciano in uno dei tanti vicoli del campo (foto Elia Milani)

In questo mix di emarginazione e rischio estremismo Unrwa e le Ong italiane (Cesvi e Overseas) fanno di tutto per rendere il campo il più vivibile possibile. “Ora stiamo lavorando a un progetto per ottimizzare la gestione dei rifiuti e per sensibilizzare le persone su temi legati all’inquinamento”, spiega Marco. “Un lavoro che punta anche a migliorare le condizioni igieniche dell’area. I risultati non saranno immediati: serve lavoro e pazienza”.

Tasneem vicino al muro di separazione del campo profughi di Shuafat (foto Elia Milani)

Tanta pazienza perchè spesso molti residenti di Gerusalemme Est usano la “transfer station” del campo per buttare anche i loro rifiuti. “Lo fanno perchè i servizi nei loro quartieri sono scarsi e sanno che qui c’è qualche organizzazione internazionale che se ne occupa”, continua amareggiato il giovane trentino. 

In questo modo i problemi si moltiplicano giorno dopo giorno. “Le tubature delle fogne del campo vengono controllate dall’Onu ma molte case sono state costruite oltre i limiti consentiti dove le Nazioni Unite non hanno il diritto ad operare: lì la situazione è disastrosa”, dice rassegnata Tasneem.

Il limite del campo profughi: oltre il confine c’è il territorio israeliano dove l’Onu non può operare (foto Elia Milani)

La scorsa primavera le forti piogge e la mancanza di un sistema fognario adeguato hanno fatto crollare una parte del muro di separazione. “Per Israele la sicurezza è la priorità”, conclude Marco. “Il muro crollato è stato ricostruito in poche ore”.

twitter@elia_milani

“La ragazza di Homs”: una storia d’amore tra guerra, migrazioni e speranza

Leila è una ragazza siriana disposta a tutto per seguire l’amore e per mettere in salvo la sua famiglia in fuga dalla guerra. Una ragazza forte e determinata che si lascia bruciare dalle passioni: quella per la libertà (che la spinge a unirsi alle prime proteste anti Assad) e quella per il suo fidanzato Bilal.
Leila è un personaggio di fantasia ispirato a una persona vera, la protagonista del romanzo “La ragazza di Homs“, scritto dalla giornalista italo siriana Susan Dabbous.

“Dietro a Leila c’è Bir, una ragazza in carne e ossa che ho conosciuto”, racconta la giornalista durante la presentazione del suo libro in un elegante salotto a Gerusalemme Est. “Tutti i nomi delle persone presenti nel libro sono inventati ma i fatti che descrivo sono realmente accaduti a uomini e donne che ho incontrato nel corso dei miei anni passati in Medio Oriente e in Italia”.

Susan Dabbous durante la presentazione del libro “La ragazza di Homs” a Gerusalemme (foto Giona Messina)

Homs, Beirut, Tripoli. Poi Lampedusa, Palermo e Milano. Sono i luoghi di Leila che fanno da sfondo all’odissea (sua e della sua famiglia) che rappresenta in modo paradigmatico il dramma e la speranza di un popolo.

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